Violazione dell’obbligo di fedeltà, nessun risarcimento per il coniuge tradito

Con la sentenza n. 6598/2019 la terza sezione civile della Suprema Corte di Cassazione è tornata a ribadire il principio di diritto secondo cui una relazione extraconiugale assurge a fatto illecito produttivo di obbligo risarcitorio solo se l’infedeltà, per le modalità con cui essa si è concretizzata, si sia tradotta in comportamenti specificamente lesivi della dignità della persona.

Il caso in esame trae origine dal ricorso con cui, nel 2010, un uomo conveniva in giudizio la moglie, da cui si era separato, nonché l’amante di questa e la Società di cui quest’ultimi risultavano entrambi dipendenti, per ottenere la condanna di tutti i convenuti in solido al risarcimento dei danni subiti in conseguenza della violazione del dovere di fedeltà coniugale.

Nel rigettare il ricorso in quanto infondato, gli Ermellini si sono focalizzati sul terzo motivo di censura della sentenza n. 4357/2016 resa dalla Corte di Appello di Roma, laddove la stessa aveva escluso che la violazione del dovere di fedeltà integri la violazione di un diritto costituzionalmente protetto e quindi sia fonte di un danno risarcibile.

In particolare, la Cassazione sottolinea come la violazione dei doveri derivanti dal matrimonio non costituiscano di per sé ed automaticamente gli estremi una responsabilità risarcitoria, di tal guisa la loro violazione potrà rilevare quale fonte di responsabilità aquiliana solo ove: si tratti di diritti costituzionalmente protetti; la lesione superi la soglia di normale tollerabilità e sussistano tutti i presupposti di cui all’art. 2059 c.c.

La violazione del dovere di fedeltà” evidenziano difatti i Giudici della Suprema Corte “sebbene possa indubbiamente essere causa di un dispiacere per l’altro coniuge, e possa provocare la disgregazione del nucleo familiare, non automaticamente è risarcibile , ma in quanto l’afflizione superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca nell’altro coniuge, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, primo tra tutti i l diritto alla salute o alla dignità personale e all’onore”.

L’eventuale risarcibilità di tale violazione deve peraltro ritenersi autonoma rispetto ai classici rimedi endo-familiari quale è, ad esempio, l’addebito della separazione, potendo la prima mancare anche qualora l’infedeltà coniugale abbia determinato il secondo.

Riconoscere che la violazione dell’integrità della vita familiare sia sempre e comunque fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi ha determinato la crisi coniugale potrebbe perfino confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti quali: la libertà di autodeterminazione o la stessa libertà di porre fine al vincolo coniugale, facoltà riconosciuta nel nostro ordinamento sin dall’entrata in vigore della legge sul divorzio.

Si noti come, nel caso in esame, la scoperta dell’infedeltà coniugale non possa dirsi causativa della crisi coniugale in quanto la stessa è stata scoperta a separazione già avvenuta.

Fermo quanto sopra esposto, la sentenza in esame si focalizza su ulteriori due aspetti di forte interesse:

  1. La corresponsabilità dell’amante (ritenuta assente nel caso di specie);
  2. La responsabilità del datore di lavoro.

Rispetto al punto sub a) gli Ermellini rilevano che l’amante, in quanto terzo estraneo alla coppia, non possa dirsi soggetto all’obbligo di fedeltà coniugale il quale presenta un carattere strettamente personale.

Di contro, non si potrebbe escludere in astratto una responsabilità risarcitoria in capo a tale soggetto ove questi abbia posto in essere comportamenti direttamente lesivi (anche avuto riguardo alle modalità con cui è stata condotta la relazione extraconiugale) della dignità e dell’onore del coniuge tradito.

Peraltro, è opportuno sottolineare che di co-responsabilità potrebbe discorrersi solo qualora anche la moglie venga riconosciuta responsabile/autrice del danno.

Similmente, nessuna co-responsabilità può riconoscersi in capo alla società datrice di lavoro per aver omesso quel controllo e/o vigilanza necessario al fine di evitare che tra dipendenti si instaurino delle relazioni personali lesive del diritto alla fedeltà coniugale.

Riconoscere un tale dovere di vigilanza, evidenzia la Corte, condurrebbe infatti a esiti paradossali ove si consideri che: “l’ingerenza del datore di lavoro nelle scelte di vita personale dei dipendenti” “integrerebbe di per sé la violazione di altri diritti costituzionale protetti quali il diritto alla privacy nel luogo di lavoro”.

Sulla base di tali motivi la Suprema Corte (dando continuità ad un filone interpretativo che ritiene necessario allegare e provare i danni alla persona – in quanto danni conseguenza cfr. Cass n. 4470/2018 e 18853/2011) ha rigettato il ricorso.

Dott.ssa Caterina Marino