Procedure concorsuali. Il privilegio dei diritti del lavoratore
Nell’ambito di qualunque procedura concorsuale il diritto del lavoratore subordinato a percepire le dovute retribuzioni rappresenta un credito di natura privilegiata in quanto garantito, a norma dell’art. 2751 bis n. 1 del c.c., da un privilegio generale avente ad oggetto i beni mobili del datore di lavoro.
Infatti il menzionato art. 2751 bis c.c. dispone espressamente che “Hanno privilegio generale sui mobili i crediti riguardati: 1) le retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro”.
I crediti derivanti da lavoro subordinato sono inoltre, nell’ambito della graduazione dei privilegi prevista dal successivo art. 2777 del codice civile, anteposti ad ogni altro credito assistito da privilegio generale mobiliare e posposti, solo ed esclusivamente, ai crediti per spese di giustizia.
Tale circostanza determina che – nell’ambito delle procedure concorsuali – l’attivo disponibile eventualmente ricavato dalla liquidazione del patrimonio mobiliare dovrà essere utilizzato, in primis, per il pagamento delle spese di giustizia e subito dopo per il soddisfacimento del diritto dei lavoratori a percepire le retribuzioni e gli altri emolumenti connessi all’espletamento dell’attività retributiva, come ad esempio il T.F.R.
Tutti gli altri creditori, eventualmente muniti anch’essi di privilegio generale mobiliare, potranno essere quindi soddisfatti solo utilizzando l’eventuale residuo rimasto disponibile dopo il soddisfacimento dei crediti da lavoro subordinato.
Le ragioni di tale preferenza attribuita ai crediti derivanti da lavoro subordinato rispetto a tutti gli altri crediti è da ravvisare, innanzitutto, nella derivazione costituzionale dei crediti in discorso, con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di garanzia dello sviluppo della persona umana e di rispetto dei suoi fondamentali diritti.
Procedendo con ordine si evidenzia, innanzitutto, che l’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana, al secondo comma, sancisce il fondante principio secondo cui “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
Tra tali diritti vi è il diritto al lavoro riconosciuto dal successivo art. 4 della Costituzione, nel cui primo comma si trova affermato il principio secondo cui “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
La Corte Costituzionale, nell’interpretare tale articolo, vi identificò due distinti diritti riconosciuti ad ogni cittadino: sia un diritto sociale affinchè fossero create occasioni di lavoro e sia un diritto all’astensione dello Stato da qualunque interferenza nella libertà di scelta e di modo di svolgimento dell’attività lavorativa.
Infatti fu proprio la Corte Costituzionale ad affermare che “Dal complessivo contesto del primo comma dell’art. 4 della Costituzione – già altre volte interpretato da questa Corte (cfr. sentenze n. 3 del 1957 , n. 30 del 1958, n. 2 del 1960, n. 105 del 1963, ord. n. 3 del 1961) – si ricava che il diritto al lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, è da considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino – l’unica che trovi nella norma costituzionale in esame il suo inderogabile fondamento – fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte di divieto di creare o di lasciar sussistere nell’ordinamento norme che pongano o consentano di porre limiti discriminatori a tale libertà ovvero che direttamente o indirettamente la rinneghino, dall’altra l’obbligo – il cui adempimento è ritenuto dalla Costituzione essenziale all’effettiva realizzazione del descritto diritto – di indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri, e dello stesso legislatore, alla creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l’impegno di tutti i cittadini idonei al lavoro” (Corte Costituzionale, sent. n. 45 del 1965).
Riguardo, poi, al diritto del lavoratore a percepire la giusta retribuzione si evidenzia che – dopo l’art. 35 della Costituzione in cui espressamente si afferma che “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” – il successivo art. 36 della Costituzione sancisce che “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Ne consegue che una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2751 bis del codice civile consente, agevolmente, di ritenere che la ratio del privilegio attribuito al diritto del lavoratore subordinato a percepire la retribuzione dovuta dal datore di lavoro, e della sua prevalenza rispetto ad ogni altro diritto parimenti privilegiato, è rappresentata dal fatto che attraverso il rispetto del diritto alla retribuzione si garantisce lo sviluppo della persona umana e il rispetto tutti i diritti inviolabili dell’individuo.
Assume pertanto, ai fini del privilegio accordato ai crediti del lavoratore, un ruolo fondamentale non solo la natura del credito ma anche la qualità soggettiva del titolare del credito medesimo.
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