Bancarotta prefallimentare. Il ruolo della dichiarazione di fallimento secondo la giurisprudenza.
Con riferimento al delitto di bancarotta prefallimentare, previsto e punito dall’art. 216 della Legge Fallimentare, è sempre stata dibattuta soprattutto in giurisprudenza la questione relativa all’esatta qualificazione da dare, rispetto alla fattispecie criminosa, all’elemento rappresentato dalla “dichiarazione di fallimento”.
Nel corso degli anni si è infatti assistito all’alternarsi, a decorrere dal 1958 ad oggi, di ben quattro orientamenti giurisprudenziali.
Infatti, dopo un primo orientamento che ha considerato la declaratoria di fallimento come un “elemento costitutivo” del reato (sia pure di natura impropria), è dapprima subentrato un orientamento che addirittura ha qualificato la sentenza di fallimento quale “evento” del reato di bancarotta, poi un successivo orientamento della Suprema Corte che invece ha considerato la pronunzia di fallimento quale semplice “condizione” obiettiva ed estrinseca di punibilità e, infine, un recente orientamento che ha nuovamente riaperto il dibattito sull’argomento.
Procedendo con ordine si evidenzia quanto segue.
Nel 1948 entrò in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana che, all’art. 41, dispose che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Sulla scorta di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza a Sezioni Unite n. 2 del 25 gennaio 1958 affermò che, nel delitto di bancarotta prefallimentare, la successiva dichiarazione di fallimento rivestiva in realtà un ruolo di assoluta centralità ai fini dell’esistenza del reato e, quindi, doveva essere considerata quale condizione di “esistenza” del reato medesimo.
Infatti la Suprema Corte, partendo dal principio della libertà dell’iniziativa economica sancito dall’art. 41 della Costituzione, affermò che qualunque condotta depauperativa eventualmente posta in essere dall’imprenditore nell’esercizio dell’attività imprenditoriale fosse da considerare come lecita, proprio in quanto espressione della libertà dell’imprenditore di gestire l’impresa nel modo ritenuto più opportuno e che, pertanto, solo con il sopraggiungere della dichiarazione di fallimento e la conseguente lesione del diritto dei creditori ad ottenere il soddisfacimento di quanto dovuto, la condotta depauperativa dell’imprenditore veniva ad assumere natura criminosa.
Nella sentenza in discorso si legge che “la dichiarazione di fallimento inerisce all’attività antecedente dell’imprenditore, trasformandola in attività trasgressiva della norma penale”.
Seguirono ulteriori pronunzie giurisprudenziali che, proprio ponendosi nel solco di tale sentenza, considerarono anch’esse la “dichiarazione di fallimento” quale elemento costitutivo del reato.
Il comune denominatore di tali pronunzie fu rappresentato dal fatto che tutte qualificarono la dichiarazione di fallimento quale elemento costitutivo “improprio” del delitto di bancarotta, in quanto rispetto ad esso non si prevedeva alcun tipo di accertamento in merito al nesso causale con la condotta dell’agente, né dal punto di vista materiale né da un punto di vista psicologico (non richiedendosi quindi rispetto a tale elemento alcun tipo di accertamento in termini di prevedibilità e quindi evitabilità da parte dell’agente).
Nessuna di tali sentenze tuttavia si spinse sino al punto di qualificare la sentenza di fallimento addirittura quale “evento” del reato, in quanto venne evidenziato che “Il legislatore, quando a un determinato accadimento intende assegnare la valenza di evento del reato, lo esplicita in termini inequivocabili, con ricorso a forme lessicali immediatamente evocative del rapporto causale (“causare”, “cagionare”, “determinare)” (cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 35352 del 7 marzo 2014).
Fuori dal coro si pose unicamente la sentenza n. 47502 del 24 settembre 2012 (la c.d. sentenza “Corvetta”) che invece qualificò la dichiarazione di fallimento quale “evento” del reato di bancarotta, in quanto si ritenne che nel delitto in discorso la lesione del diritto dei creditori si concretizzasse definitivamente (realizzandosi quindi l’evento lesivo) solo nel momento in cui, con la dichiarazione di fallimento, diveniva impossibile per l’imprenditore attivarsi per porre rimedio all’insolvenza.
Nella sentenza in discorso venne affermato che “L’interesse protetto dalla norma, dunque, non è solo il potenziale pregiudizio del ceto creditorio, ma la lesione definitiva dei diritti di credito che si determina con il fallimento”.
Pertanto, con la sentenza n. 47502 del 24 settembre 2012, si ritenne che la dichiarazione di insolvenza – in quanto “evento” del reato di bancarotta – si dovesse porre in un rapporto di causalità materiale (condotta, evento e nesso di causalità) e psicologica (prevedibilità e quindi evitabilitià) con la condotta depauperativa tenuta dall’agente.
Tale impostazione, tuttavia, venne criticata dalla dottrina in quanto si evidenziò che non sempre nei reati fallimentari venivano utilizzate locuzioni tali da lasciare intendere che la dichiarazione di fallimento rappresentasse l’”evento” del reato (ad esempio nel delitto di cui al secondo comma dell’art. 223 L.F. si utilizza l’espressione “hanno cagionato”, mentre nell’art. 216 L.F. si utilizza l’espressione “se è dichiarato fallito”).
Ancora successivamente la Corte di Cassazione mutò completamente indirizzo e, criticando le ragioni per le quali si era in passato considerata la “dichiarazione di fallimento” quale elemento costitutivo del reato, venne invece affermato il diverso principio secondo cui essa doveva considerarsi quale semplice “condizione oggettiva ed estrinseca” di punibilità.
In particolare, con la sentenza a Sezioni Unite n. 22474/2016 del 31 marzo 2016 (conosciuta come sentenza “Passarelli”), la Corte di Cassazione evidenziò che, non essendo richiesto l’accertamento di un nesso di causalità materiale o psicologica tra la condotta distrattiva dell’agente e la declaratoria di fallimento, quest’ultima doveva in realtà essere qualificata quale una “condizione di punibilità” successiva ed estranea rispetto a quella condotta distrattiva dell’imprenditore che, già di per sé, era quindi idonea a ledere il diritto dei creditori.
In sostanza si ritenne che, per la lesione del diritto dei creditori e quindi per l’esistenza del delitto di bancarotta, fosse sufficiente la sola condotta distrattiva con la quale l’imprenditore aveva destinato ad altre finalità quei beni che rappresentavano, invece, la garanzia patrimoniale a tutela dei creditori dell’impresa.
Pertanto si ritenne che la condotta distrattiva dell’imprenditore integrasse di per sé il delitto di bancarotta e che, pertanto, la successiva sentenza dichiarativa di fallimento (estranea alla condotta dell’agente) fosse da qualificare quale “condizione estrinseca di punibilità” rispetto ad un delitto già perfezionatosi.
Il principio venne poi rimarcato e si consolidò, nel 2017, con la sentenza della Corte di Cassazione n. 13910 dell’8 febbraio 2017 (la c.d. sentenza “Santoro”), con la quale venne integralmente messo in discussione il paradigma posto, a decorrere da 1958, dalle precedenti pronunzie giurisprudenziali a fondamento della ritenuta natura della “sentenza dichiarativa di fallimento” quale “elemento costitutivo del reato”.
Innanzitutto, con la sentenza da ultimo menzionata, venne espresso il principio secondo cui l’iniziativa economica dell’imprenditore non è libera in senso assoluto, in quanto a norma dello stesso art. 41 della Costituzione essa “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e soprattutto che l’imprenditore “Non è il dominus assoluto e incontrollato del patrimonio aziendale. Egli, pertanto, non ha una sorta di ius utendi ed abutendi sul patrimonio aziendale”.
Ne deriverebbe, secondo la sentenza da ultimo menzionata, che qualunque condotta distrattiva posta in essere dall’imprenditore rappresenta un atto depauperativo del patrimonio aziendale, idoneo a mettere in pericolo quel bene tutelato dalla norma incriminatrice del delitto di bancarotta, vale dire la garanzia patrimoniale dei creditori rappresentata dal patrimonio dell’impresa.
Ne consegue che, se la condotta depauperativa del patrimonio aziendale già di per sé offende il diritto dei creditori alla conservazione della garanzia patrimoniale, la successiva dichiarazione di fallimento non rappresenta un elemento costitutivo del reato, ma solo una condizione estrinseca di punibilità.
Con la sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 22474/2016 del 31 marzo 2016 ed ancora di più con la successiva sentenza della Corte di Cassazione n. 13910 dell’8 febbraio 2017 sembrava, quindi, che la giurisprudenza di legittimità fosse finalmente arrivata al granitico convincimento secondo cui nel delitto di bancarotta il reato si consuma con la condotta distrattiva che mette in pericolo la garanzia patrimoniale del ceto creditorio e la “sentenza dichiarativa di fallimento” è, invece, solo una condizione di punibilità del reato.
Tuttavia sempre la Corte di Cassazione, con una recente sentenza di poco successiva alla sentenza n. 13910 dell’8 febbraio 2017, ha riaperto nuovamente il dibattito rimettendo in discussione il rapporto esistente tra il delitto di bancarotta e la sentenza dichiarativa di fallimento.
Infatti con la sentenza n. 17819 del 24 marzo 2017 la Suprema Corte ha, nuovamente, messo in dubbio la possibilità di considerare la dichiarazione di fallimento quale semplice condizione estrinseca di punibilità, evidenziando in ogni caso la necessità di estendere anche ad un tale elemento l’indagine relativa alla sussistenza del nesso eziologico di causalità materiare e psicologica con la condotta dell’agente.
Infatti, secondo la pronuncia da ultimo menzionata, il principio della “personalità” della responsabilità penale espresso dall’art. 27, primo comma, della Costituzione richiede – secondo l’interpretazione al riguardo fornita dalle due sentenze della Corte Costituzionale n. 364/1988 e n. 1085/1988 – che ogni elemento idoneo ad incidere sul disvalore penale di una condotta sia soggettivamente imputabile e rimproverabile al soggetto agente.
Per l’effetto, secondo l’orientamento giurisprudenziale in discorso, nel delitto di bancarotta prefallimentare si tratterebbe di verificare se la successiva dichiarazione di fallimento incida sul disvalore della condotta depauperativa posta in essere dall’imprenditore e, solo nel caso in cui si accerti che la pronunzia di fallimento non incide sull’offensività della condotta depauperativa e sul suo disvalore, sarebbe allora possibile configurare la “sentenza di fallimento” quale semplice “condizione di punibilità”, posto che in caso contrario essa dovrebbe essere considerata quale elemento costitutivo del reato.
Alla stregua di quanto sopra esposto, quindi, la questione circa il ruolo assunto dalla “dichiarazione di fallimento” nel delitto di bancarotta prefallimentare è ancora aperta e continua a suscitare l’interesse degli operatori del diritto.
È auspicabile che si pervenga, in merito a tale punto, ad un orientamento giurisprudenziale univoco e ciò in considerazione del fatto che proprio dal modo in cui viene qualificata la sentenza dichiarativa di fallimento – come elemento costitutivo del reato di bancarotta o come semplice condizione di punibilità – dipenderà nei procedimenti penali relativi al delitto in discorso l’ampiezza e la ripartizione dell’onere della prova circa la sussistenza o meno del reato.
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Nel corso degli anni si è infatti assistito all’alternarsi, a decorrere dal 1958 ad oggi, di ben quattro orientamenti giurisprudenziali.
Infatti, dopo un primo orientamento che ha considerato la declaratoria di fallimento come un “elemento costitutivo” del reato (sia pure di natura impropria), è dapprima subentrato un orientamento che addirittura ha qualificato la sentenza di fallimento quale “evento” del reato di bancarotta, poi un successivo orientamento della Suprema Corte che invece ha considerato la pronunzia di fallimento quale semplice “condizione” obiettiva ed estrinseca di punibilità e, infine, un recente orientamento che ha nuovamente riaperto il dibattito sull’argomento.
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Nel 1948 entrò in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana che, all’art. 41, dispose che “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Sulla scorta di tale principio la Corte di Cassazione, con sentenza a Sezioni Unite n. 2 del 25 gennaio 1958 affermò che, nel delitto di bancarotta prefallimentare, la successiva dichiarazione di fallimento rivestiva in realtà un ruolo di assoluta centralità ai fini dell’esistenza del reato e, quindi, doveva essere considerata quale condizione di “esistenza” del reato medesimo.
Infatti la Suprema Corte, partendo dal principio della libertà dell’iniziativa economica sancito dall’art. 41 della Costituzione, affermò che qualunque condotta depauperativa eventualmente posta in essere dall’imprenditore nell’esercizio dell’attività imprenditoriale fosse da considerare come lecita, proprio in quanto espressione della libertà dell’imprenditore di gestire l’impresa nel modo ritenuto più opportuno e che, pertanto, solo con il sopraggiungere della dichiarazione di fallimento e la conseguente lesione del diritto dei creditori ad ottenere il soddisfacimento di quanto dovuto, la condotta depauperativa dell’imprenditore veniva ad assumere natura criminosa.
Nella sentenza in discorso si legge che “la dichiarazione di fallimento inerisce all’attività antecedente dell’imprenditore, trasformandola in attività trasgressiva della norma penale”.
Seguirono ulteriori pronunzie giurisprudenziali che, proprio ponendosi nel solco di tale sentenza, considerarono anch’esse la “dichiarazione di fallimento” quale elemento costitutivo del reato.
Il comune denominatore di tali pronunzie fu rappresentato dal fatto che tutte qualificarono la dichiarazione di fallimento quale elemento costitutivo “improprio” del delitto di bancarotta, in quanto rispetto ad esso non si prevedeva alcun tipo di accertamento in merito al nesso causale con la condotta dell’agente, né dal punto di vista materiale né da un punto di vista psicologico (non richiedendosi quindi rispetto a tale elemento alcun tipo di accertamento in termini di prevedibilità e quindi evitabilità da parte dell’agente).
Nessuna di tali sentenze tuttavia si spinse sino al punto di qualificare la sentenza di fallimento addirittura quale “evento” del reato, in quanto venne evidenziato che “Il legislatore, quando a un determinato accadimento intende assegnare la valenza di evento del reato, lo esplicita in termini inequivocabili, con ricorso a forme lessicali immediatamente evocative del rapporto causale (“causare”, “cagionare”, “determinare)” (cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 35352 del 7 marzo 2014).
Fuori dal coro si pose unicamente la sentenza n. 47502 del 24 settembre 2012 (la c.d. sentenza “Corvetta”) che invece qualificò la dichiarazione di fallimento quale “evento” del reato di bancarotta, in quanto si ritenne che nel delitto in discorso la lesione del diritto dei creditori si concretizzasse definitivamente (realizzandosi quindi l’evento lesivo) solo nel momento in cui, con la dichiarazione di fallimento, diveniva impossibile per l’imprenditore attivarsi per porre rimedio all’insolvenza.
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Tale impostazione, tuttavia, venne criticata dalla dottrina in quanto si evidenziò che non sempre nei reati fallimentari venivano utilizzate locuzioni tali da lasciare intendere che la dichiarazione di fallimento rappresentasse l’”evento” del reato (ad esempio nel delitto di cui al secondo comma dell’art. 223 L.F. si utilizza l’espressione “hanno cagionato”, mentre nell’art. 216 L.F. si utilizza l’espressione “se è dichiarato fallito”).
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Con la sentenza della Corte di Cassazione, Sezioni Unite, n. 22474/2016 del 31 marzo 2016 ed ancora di più con la successiva sentenza della Corte di Cassazione n. 13910 dell’8 febbraio 2017 sembrava, quindi, che la giurisprudenza di legittimità fosse finalmente arrivata al granitico convincimento secondo cui nel delitto di bancarotta il reato si consuma con la condotta distrattiva che mette in pericolo la garanzia patrimoniale del ceto creditorio e la “sentenza dichiarativa di fallimento” è, invece, solo una condizione di punibilità del reato.
Tuttavia sempre la Corte di Cassazione, con una recente sentenza di poco successiva alla sentenza n. 13910 dell’8 febbraio 2017, ha riaperto nuovamente il dibattito rimettendo in discussione il rapporto esistente tra il delitto di bancarotta e la sentenza dichiarativa di fallimento.
Infatti con la sentenza n. 17819 del 24 marzo 2017 la Suprema Corte ha, nuovamente, messo in dubbio la possibilità di considerare la dichiarazione di fallimento quale semplice condizione estrinseca di punibilità, evidenziando in ogni caso la necessità di estendere anche ad un tale elemento l’indagine relativa alla sussistenza del nesso eziologico di causalità materiare e psicologica con la condotta dell’agente.
Infatti, secondo la pronuncia da ultimo menzionata, il principio della “personalità” della responsabilità penale espresso dall’art. 27, primo comma, della Costituzione richiede – secondo l’interpretazione al riguardo fornita dalle due sentenze della Corte Costituzionale n. 364/1988 e n. 1085/1988 – che ogni elemento idoneo ad incidere sul disvalore penale di una condotta sia soggettivamente imputabile e rimproverabile al soggetto agente.
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