La rilevazione dello stato di crisi
Occorre partire dalla considerazione che l’ “equilibrio economico generale” di un’impresa si sostanzia nella concomitante esistenza di tre equilibri “parziali” e precisamente:
- l’equilibrio reddituale (possibilità di impiegare la nuova ricchezza prodotta per reintegrare i fattori di produzione);
- l’equilibrio finanziario (capacità dell’impresa di coprire integralmente il fabbisogno finanziario derivante dallo svolgimento nel tempo dell’attività produttiva)
- l’equilibrio patrimoniale (rapporto tra le forme di capitale impiegate per l’attività d’impresa e le relative fonti di finanziamento).
L’eventuale incrinarsi anche soltanto di uno di questi tre pilastri compromette seriamente “l’equilibrio economico generale” dell’impresa, che pertanto si viene a trovare in una situazione di difficoltà nel generare quella ricchezza necessaria per proseguire la propria attività produttiva.
Nel caso in cui ciò si verifichi l’impresa entra, in un medio lungo periodo, in uno “stato di crisi”.
La Legge Fallimentare, attraverso l’art. 5 della Legge Fallimentare, definisce lo stato di insolvenza nel modo seguente: “L’imprenditore che si trova in uno stato di insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato di insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrano che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.
Tuttavia la medesima legge non contiene una definizione dello “stato di crisi” e, pertanto, succede che l’imprenditore, trascurando la situazione in cui è entrata la propria azienda, si venga trovare nell’impossibilità di soddisfare le proprie obbligazioni.
Nel caso in cui si dovesse verificare tale evenienza, vuol dire che l’impresa ha ormai superato la fase di twilight e si è venuta a trovare in uno stato di irreversibile insolvenza.
Ne consegue che, posto che “prevenire è meglio che curare”, l’imprenditore deve necessariamente essere in grado di rilevare precocemente il rischio di una crisi d’impresa e di poter quindi intervenire prima ancora che la stessa si manifesti.
Sotto tale profilo assumono rilevanza i cosiddetti “indicatori di allerta”, che dovrebbero essere idonei a consentire all’imprenditore di percepire la crisi prima ancora del suo conclamato manifestarsi, al fine di poter ricorrere tempestivamente allo strumento di ristrutturazione che sia maggiormente efficace per rimuoverne le cause.
Tuttavia, nel nostro ordinamento, vi è sempre stata e vi è ancora una forte incertezza circa l’individuazione di validi “indicatori di allerta”.
Si è ritenuto, ad esempio, che non rappresenti un idoneo “indicatore di allerta” la segnalazione dell’omissione del versamento, da parte dell’impresa, dei contributi erariali e contributivi.
Infatti tale segnalazione, da parte dello Stato o degli organi previdenziali, interviene spesso con notevole ritardo e ciò per due ordini di ragioni: 1) in primo luogo la natura privilegiata del credito (dello Stato o dell’ente previdenziale) induce lo stesso creditore a rimanere silente per diverso tempo e proprio tale inerzia dell’Ente nel far valere il proprio credito genera, nell’imprenditore, il falso convincimento che l’impresa sia in salute; 2) l’inefficienza dell’Ente nel procedere al recupero dei propri crediti, spesso dovuta alle ormai note lungaggini burocratiche.
Inoltre non sono stati ritenuti validi “indicatori di allerta” nemmeno il rapporto Debito/EDIBTA e l’indicatore sintetico denominato “Z – Score” di Altman in quanto tali indicatori – che si fondano sull’esame dei dati di bilancio e attraverso apposite formule individuano la probabilità del verificarsi di uno stato di decozione – utilizzano parametri puramente astratti, che tuttavia dovrebbero essere di volta in volta confrontati con la realtà economica di ogni singola impresa.
Parimenti non sono stati ritenuti validi “indicatori di allerta” nemmeno quelli che traggono origine dall’interpretazione dei dati di bilancio secondo le disposizioni contenute nei principi contabili elaborati dall’OIC (Organismo Italiano di Contabilità) e nello specifico le regole dettate dall’OIC n. 6, nonchè le regole di comportamento del collegio sindacale dettate dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili (segnatamente la norma n. 11 in materia di prevenzione ed emersione della crisi) ed i principi internazionali di revisione, in particolare l’ISA 570 in materia di continuità aziendale.
Effettivamente il tentativo di estrapolare i segnali della crisi dall’esame del bilancio dell’impresa, connaturato da uno strutturale dinamismo e fortemente influenzato dai condizionamenti che provengono dall’ambiente in cui l’impresa opera, parrebbe destinato a determinare conclusioni fortemente opinabili in merito alla sussistenza o meno di uno stato di crisi.
Appare allora evidente come, nel nostro ordinamento, via sia una notevole incertezza circa l’identificazione di attendibili indici rilevatori di un potenziale stato di crisi.
Il problema dovrebbe essere risolto attraverso i decreti attuativi che il Governo dovrà adottare in esecuzione della Legge Delega n. 155/2017 approvata il 19 ottobre 2017 (“Delega al Governo per la riforma della disciplina della crisi d’impresa e dell’insolvenza”).
Infatti l’art. 2 della legge delega in discorso, al primo comma punto c) attribuisce al Governo il compito di “introdurre una definizione dello stato di crisi, intesa come probabilità di futura insolvenza” ed è, allora, auspicabile che il Governo indici anche gli indici da prendere in considerazione per accertare la sussistenza di tale status.
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- l’equilibrio finanziario (capacità dell’impresa di coprire integralmente il fabbisogno finanziario derivante dallo svolgimento nel tempo dell’attività produttiva)
- l’equilibrio patrimoniale (rapporto tra le forme di capitale impiegate per l’attività d’impresa e le relative fonti di finanziamento).
L’eventuale incrinarsi anche soltanto di uno di questi tre pilastri compromette seriamente “l’equilibrio economico generale” dell’impresa, che pertanto si viene a trovare in una situazione di difficoltà nel generare quella ricchezza necessaria per proseguire la propria attività produttiva.
Nel caso in cui ciò si verifichi l’impresa entra, in un medio lungo periodo, in uno “stato di crisi”.
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Ne consegue che, posto che “prevenire è meglio che curare”, l’imprenditore deve necessariamente essere in grado di rilevare precocemente il rischio di una crisi d’impresa e di poter quindi intervenire prima ancora che la stessa si manifesti.
Sotto tale profilo assumono rilevanza i cosiddetti “indicatori di allerta”, che dovrebbero essere idonei a consentire all’imprenditore di percepire la crisi prima ancora del suo conclamato manifestarsi, al fine di poter ricorrere tempestivamente allo strumento di ristrutturazione che sia maggiormente efficace per rimuoverne le cause.
Tuttavia, nel nostro ordinamento, vi è sempre stata e vi è ancora una forte incertezza circa l’individuazione di validi “indicatori di allerta”.
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