Maltrattamento di animali: la sentenza della Cassazione

La Corte di Cassazione, sez. III Penale, con sentenza n. 16042/2018 depositata l’11 aprile si è pronunciata in merito al reato di maltrattamenti di animali ex art. 544-ter c.p.

Nel caso di specie, sia il Tribunale che la Corte d’Appello di Bologna hanno confermato la condanna a sei mesi di reclusione per l’imputato ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 544-ter c.p. per aver costretto undici cani all’interno di una gabbia di piccole dimensioni, tenendoli in pessime condizioni igieniche tanto che alcuni di essi hanno riportato infezioni e lesioni.

L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione avverso detta pronuncia lamentando la carenza di motivazione in merito alla configurabilità della propria responsabilità penale, ritenendo qualificabile tale motivazione come meramente apparente.

Ad un tal riguardo la Suprema Corte, richiamando alcune pronunce di legittimità, ha rammentato che: “la motivazione è qualificabile come apparente e, dunque, inesistente in quanto sia del tutto avulsa dalle risultanze processuali o si avvalga di argomentazioni di puro genere, o di asserzioni apodittiche, o di proposizioni prive di efficacia dimostrativa, cioè, in tutti i casi in cui il ragionamento espresso dal giudice a sostegno della decisione adottata sia soltanto fittizio e perciò sostanzialmente inesistente” ed ha continuato spiegando che pertanto, nel caso di specie la motivazione sarebbe stata apparente se la sentenza si fosse meramente limitata “ad indicare le fonti di prova della colpevolezza dell’imputato, senza contenere la valutazione critica ed argomentata compiuta dal giudice in merito agli elementi probatori acquisiti al processo”.

Ebbene, nel caso in commento la Suprema Corte non ha rilevato alcuna di dette carenze, ritenendo al contrario completa la motivazione della sentenza di secondo grado, avendo la Corte argomentato sia in ordine alla configurabilità dell’elemento oggettivo del reato fondato sulle risultanze istruttorie, sia alla configurabilità dell’elemento psicologico, ossia la volontarietà e la consapevolezza della condotta posta in essere da parte dell’imputato.

Alla luce di tali considerazioni la Suprema Corte ha pertanto rigettato il ricorso condannando il ricorrente alle spese.

Dott.ssa Carmen Giovannini