
Assegno di mantenimento: la sentenza della Suprema Corte
La Corte di Cassazione, sez. VI Civile, con ordinanza del 22743/2017, depositata il 28 settembre si è pronunciata in merito all’importo dell’assegno di mantenimento.
Nel caso di specie, a seguito della conclusione del giudizio di separazione personale, l’ormai ex coniuge è risultato soccombente in secondo grado poiché la Corte d’appello di Roma non ha accolto il suo gravame contro le statuizioni economiche della sentenza del Tribunale.
L’uomo, pertanto, ha proposto ricorso per Cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, adducendo come unico motivo la nullità della sentenza per motivazione apparente.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha in primis specificato che l’ipotesi di motivazione apparente ex art. 360, n. 4, c.p.c. “ricorre quando il giudice di merito omette di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro vera disamina logico-giuridica tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito; un tale vizio si configura, invece, nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte ricorrente”.
In una tale ottica, gli Ermellini hanno continuato statuendo che la sentenza della Corte d’Appello in commento non è affetta dal vizio di motivazione apparente, poiché la stessa invece si fonda sull’esistenza di redditi non dichiarati dal ricorrente, facilmente desumibile dalle sue stesse ammissioni in merito allo svolgimento di altre attività oltre quella di lavoro subordinato ed ulteriormente comprovata, in merito alle modalità di effettivo svolgimento dell’attività di lavoro dipendente ed alle concrete mansioni, dal risultato della prova orale.
Alla luce di tali considerazioni, pertanto, i Magistrati della Cassazione hanno rigettato il ricorso e condannato il ricorrente alle spese processuali.
Dott.ssa Carmen Giovannini

Assegno di mantenimento: la sentenza della Suprema Corte
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L’uomo, pertanto, ha proposto ricorso per Cassazione avverso la decisione della Corte territoriale, adducendo come unico motivo la nullità della sentenza per motivazione apparente.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha in primis specificato che l’ipotesi di motivazione apparente ex art. 360, n. 4, c.p.c. “ricorre quando il giudice di merito omette di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro vera disamina logico-giuridica tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito; un tale vizio si configura, invece, nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte ricorrente”.
In una tale ottica, gli Ermellini hanno continuato statuendo che la sentenza della Corte d’Appello in commento non è affetta dal vizio di motivazione apparente, poiché la stessa invece si fonda sull’esistenza di redditi non dichiarati dal ricorrente, facilmente desumibile dalle sue stesse ammissioni in merito allo svolgimento di altre attività oltre quella di lavoro subordinato ed ulteriormente comprovata, in merito alle modalità di effettivo svolgimento dell’attività di lavoro dipendente ed alle concrete mansioni, dal risultato della prova orale.
Alla luce di tali considerazioni, pertanto, i Magistrati della Cassazione hanno rigettato il ricorso e condannato il ricorrente alle spese processuali.
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