Si sottrae al test del DNA, può essere riconosciuto padre?

Con la sentenza n.23296/15 del 29 settembre 2015, depositata in data 13 novembre 2015 i Giudici di legittimità tornano a ribadire un concetto già affermato in precedenza in materia di riconoscimento di paternità.

Il ricorrente aveva adito la Suprema Corte in seguito all’emissione sentenza del Tribunale – successivamente confermata in grado d’appello- di dichiarazione di paternità emessa all’esito del giudizio promosso dalla presunta figlia.

Il Giudice di prime cure infatti aveva ritenuto ragionevole presumere la paternità (sia perché egli si era ripetutamente sottratto, omettendo di addurre giustificato motivo, agli accertamenti biologici disposti tramite CTU dal giudice, sia a causa della mancata contestazione di una relazione sessuale, essendo quest’ultimo limitatosi a contestare l’esistenza di una relazione sentimentale tra lui e la madre dell’attrice) e aveva disposto la prosecuzione del giudizio relativo alla domanda di mantenimento.

Tra i motivi di ricorso per Cassazione proposti, il ricorrente in primis lamenta l’applicazione del principio di non contestazione alla fattispecie, attinente a diritti indisponibili; in secondo luogo adduce l’omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio, oggetto però di discussione, e cioè che le risultanze istruttorie ovvero la mancanza delle dichiarazioni della madre circa la presunta paternità che per la loro insufficienza non avrebbero dovuto permettere di dichiarare la paternità; terzo ed ultimo motivo, infine, veniva affermato che la dichiarazione giudiziale di paternità si basava su un errore di fatto, ovvero, sulla pretesa mancata contestazione dell’esistenza di una relazione.

Secondo la Suprema Corte i tre motivi possono essere trattati come unicum, non rilevando la mancata contestazione dell’esistenza di una relazione con la madre della ricorrente. La stessa giurisprudenza di legittimità afferma infatti che “nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda” (da ultimo Cass. Civ. sezione I n. 6025 del 25 marzo 2015); concetto affermato già dalla Cass. civ., sezione I n. 12971 del 24 luglio 2012 secondo cui “il rifiuto ingiustificato da parte del padre di sottoporsi agli esami ematologici, considerando il contesto sociale e la eventuale maggiore difficoltà di riscontri oggettivi alle dichiarazioni della madre, può essere liberamente valutato dal giudice, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, cod. proc. Civ., anche in assenza di prova dei rapporti sessuali tra le parti”.

Secondo la Suprema Corte, dunque, rilevante ai fini della decisione (di rigetto del ricorso), è il perdurante rifiuto del ricorrente a sottoporsi a esami clinici che per la loro scientifica oggettività avrebbero potuto fugare qualsiasi dubbio sulla realtà fattuale della paternità.