Vendetta in chat? Internet non tutela dalla responsabilità penale

luglio 15th, 2013|Articoli, Diritto penale|

La Corte di Cassazione, con la sentenza della Quinta Sezione Penale del 29 aprile 2013, n. 2905, si è occupata dell’applicabilità del delitto di sostituzione di persona, di cui all’art. 494 c.p, ai casi di colui che crei ed utilizzi un account di posta elettronica, attribuendosi falsamente generalità altrui, al fine di arrecargli un danno ed inducendo in errore gli utenti della rete internet.

Nel caso di specie, A veniva condannata per i reati di ingiuria, molestia e sostituzione di persona, commessi in danno della propria ex datrice di lavoro (B). Veniva infatti accertato che A aveva divulgato su una chatroom il numero di telefono di B, attraverso l’attribuzione di un nickname allusivo, che induceva gli utenti della chat a chiamare l’ignara vittima al fine di incontrarla o intrattenere con lei conversazioni a sfondo sessuale.

La Corte di Appello riformava la sentenza, ritenendo prescritto il reato di molestie e di conseguenza riducendo la pena comminata.

Avverso suddetta sentenza, A proponeva ricorso alla Corte di Cassazione, adducendo che la fattispecie di sostituzione di persona punisce la condotta di colui che sostituisca illegittimamente la propria alla altrui persona o attribuisca a sé o ad altri un falso nome, procurando a sé o ad altri un vantaggio o recando danno ad altri e pertanto, la pubblicazione del numero di telefono di B, non sarebbe sufficiente ad integrare il delitto di cui all’art. 494 c.p.

La Corte di Cassazione ha risolto la questione con sentenza 2905/2013, rigettando il ricorso e premettendo che, per far fronte alle nuove modalità di aggressione dei beni tutelati si possa far uso, sempre nel rispetto del principio di tassatività della fattispecie penale e del divieto di interpretazione analogica delle norme penali, di forme di interpretazione estensiva, qualora possano aiutare a stabilire che il precetto legislativo abbia un contenuto più ampio di quello che appare dalle parole del legislatore. In questo caso non vi sarà alcuna violazione del divieto generale di applicazione analogica della norma penale, in quanto non viene ampliato il contenuto effettivo della disposizione al di fuori dell’area di operatività che le è propria, ma si impedisce che fattispecie non prevedibili nel momento storico in cui la disposizione veniva emanata si sottraggano alla sua disciplina solo in ragione di manchevoli espressioni letterali.

E’ proprio sulla base di questo presupposto che la Corte ha ritenuto fosse possibile far ricadere la condotta di A nella fattispecie di sostituzione di persona. Infatti l’utilizzo di un nickname, ancorché utilizzato per contrassegnare un identità virtuale, presenta ad ogni modo una propria dimensione, potendo spiegare effetti verso la persona cui il nickname è attribuito, come avvenuto nel caso oggetto di scrutinio.

A sostegno, la Corte richiama anche la disciplina dello pseudonimo che – in sede civile – è tutelato allo stesso modo del nome, ricorrendone determinati presupposti. Nel caso specifico, il nickname conteneva le iniziali di B, allusioni di tipo sessuale, essendo munito del suffisso “-sex” ed era associato al numero di telefono della vittima, inducendo gli utenti della chat a contattare B al fine di incontri e conversazioni di carattere erotico.

Ricorre, pertanto l’elemento costitutivo della attribuzione a sé o ad altri di un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici. Ricorrono, altresì, gli elementi ulteriori della fattispecie, quali il fine di recare ad altri un danno e l’induzione di taluno in errore, realizzata proprio mediante l’attribuzione di falsi contrassegni personali all’ignara vittima.