L’esclusione del socio di una Srl dopo l’ordinanza n. 16013/2019

Con ordinanza n. 16013/2019, la Prima Sezione Civile della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su una delle questioni più dibattute in dottrina e giurisprudenza ove l’interesse della maggioranza e quello del singolo si confrontano alla luce delle riforme del diritto societario: l’esclusione convenzionale del socio nelle società a responsabilità limitata.

Come ogni analisi che si rispetti, prima di procedere ad illustrare le ragioni poste alla base del provvedimento della Corte, appare opportuno soffermarsi sui profili essenziali dell’istituto al fine di comprendere la ratio sottesa all’intervento del legislatore.

Il codice civile del 1942 all’art. 2466 c.c., rubricato “mancata esecuzione dei conferimenti”, prevede una fattispecie legale di esclusione del socio di una s.r.l.

La norma disciplina l’ipotesi in cui il socio non esegue il conferimento di capitale al quale era tenuto. In questo caso il codice prevede che il socio deve essere diffidato dall’organo amministrativo ad eseguire il conferimento nel termine di 30 giorni.

Decorso inutilmente questo termine gli amministratori che non ritengano utile promuovere azione per l’esecuzione dei conferimenti dovuti hanno la facoltà di vendere agli altri soci, in proporzione alla loro partecipazione, la quota del socio moroso.

Qualora poi non sia possibile procedere alla vendita per mancanza di offerte per l’acquisto, si procederà alla vendita della quota all’incanto ma solo nel caso in cui ciò sia consentito dall’atto costitutivo.

Da ultimo, esperito senza alcun risultato anche quest’ultimo tentativo di vendita, gli amministratori potranno procedere all’esclusione del socio trattenendo le somme riscosse con conseguente riduzione del capitale in misura corrispondente al valore del conferimento non eseguito.

Come si evince dalla norma, l’esclusione del socio avviene solo al termine di un complesso iter nel quale si cercano di acquisire, tramite la vendita della quota del socio inadempiente, le somme da questo promesse e mai corrisposte.

L’interesse posto a presidio dall’ordinamento è quello della tutela dei creditori sociali in virtù del principio di effettività del capitale sociale secondo cui al valore nominale dei conferimenti deve corrispondere un patrimonio acquisito (e quindi effettivo) che impedisca un arresto nello svolgimento dell’attività sociale e che consenta di soddisfare le pretese creditorie; lo scopo è quello di garantire una perfetta corrispondenza tra capitale nominale e capitale reale.

La preminenza dell’interesse alla protezione del ceto creditorio a discapito dell’interesse del singolo socio escluso si ravvisa anche nel fatto che la legge affida ad una decisone degli amministratori la vendita forzosa della quota del socio moroso che viene effettuata a rischio e pericolo del medesimo secondo il valore risultante dall’ultimo bilancio approvato e non, invece, in base al valore di mercato al momento della vendita cioè al netto delle plusvalenze non iscritte a bilancio.

Accanto all’ipotesi di cui all’art. 2466 c.c., il legislatore con Dlgs. 17 gennaio 2006 n. 3, ha introdotto l’art. 2473 bis c.c., il quale dispone che “l’atto costitutivo può prevedere specifiche ipotesi di esclusione per giusta causa del socio. In tal caso si applicano le disposizioni del precedente articolo, esclusa la possibilità del rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale [1]”.

Il legislatore ha quindi previsto la possibilità per l’autonomia privata di introdurre nell’atto costitutivo clausole di esclusione del socio: si è ritenuto che gli stessi soci, in quanto soggetti più vicini all’interesse d’impresa da tutelare, riescano più efficacemente ad individuare i comportamenti che possono arrecare un pregiudizio tale da giustificare lo scioglimento coattivo del vincolo sociale.

Un simile strumento, se da un lato permette la protezione della società contro le condotte lesive dell’interesse sociale permettendo una rapida estromissione, si presta a facili strumentalizzazioni abusive da parte della maggioranza. Per tale ragione acquistano fondamentale importanza il criterio di specificità e di giusta causa enunciati nell’articolo de quo.

Il primo vieta ai soci di prevedere l’adozione di clausole generiche ed indeterminate imponendo di ancorare l’esclusione ad un parametro oggettivo preventivamente determinato. Lo scopo è quello di limitare la discrezionalità della maggioranza ed impedire una valutazione a posteriori dei comportamenti: la clausola dovrà pertanto avere i connotati di una regola organizzativa, astrattamente applicabile all’intera compagine sociale.

Giusta causa, invece, sta a significare che l’esclusione deve trovare fondamento nella violazione di un interesse meritevole di tutela.

Nella nozione di giusta causa rientrerà sicuramente la violazione degli obblighi derivanti dalla legge o dallo statuto. Si pensi al caso del socio che non partecipi, senza giustificato motivo, alla decisione dei soci di approvazione del bilancio, allorché il medesimo sia in possesso di una quota che impedisce all’assemblea di raggiungere i quorum deliberativi previsti dalla legge, o che con la sua condotta renda impossibile il funzionamento dell’assemblea (Trib. Milano, 31.1.2006).

Ad ogni modo, secondo i principi generali, l’inadempimento dovrà essere grave tenuto conto dell’interesse sociale sicché lo scioglimento del vincolo contrattuale non può trovare giustificazione in qualsiasi violazione: “l’indagine sulla gravità deve tener conto del concreto pregiudizio, rispetto al conseguimento dei fini sociali, derivante dall’inadempimento stesso” (Cass., 10.1.1998 n. 153).

Oltre al caso di cui sopra, la giusta causa può inoltre ricomprendere forme di esclusione diverse dall’inadempimento purché siano riferite alla qualità di socio e siano finalizzate alla protezione dell’interesse ad una proficua partecipazione alla società.

In simili ipotesi sarà necessaria una valutazione caso per caso dell’atto costitutivo al fine di verificare se la clausola d’esclusione, frutto dell’autonomia privata, trovi riscontro in un interesse condiviso (si pensi, ad es., alla mancanza dei requisiti professionali previsti per la partecipazione).

A ogni modo, l’ampiezza dei criteri in questione, specificità e giusta causa, lascia ampi spazi di manovra alla maggioranza dei soci rimettendo all’interprete l’arduo compito di tracciare i limiti dell’iniziativa privata.

Ed è proprio su quest’ ordine di ragioni che si inserisce l’ordinanza della Suprema Corte del 2019.

La pronuncia prende le mosse dal ricorso avverso la decisione della Corte d’Appello di l’Aquila, con la quale era stata sancita la nullità della delibera di una S.r.l. disponente una clausola statutaria di esclusione del socio nell’ipotesi in cui questo compia “atti che rechino nocumento o turbativa alla gestione sociale”, ed un ulteriore clausola con la quale era stato disposto il divieto per il socio di intervenire nell’assemblea deliberante la sua esclusione con automatica efficacia dell’esclusione al momento della delibera.

La Cassazione, nel rigettare il ricorso, ha confermato la nullità della summenzionata clausola di esclusione in quanto eccessivamente generica ed in violazione dei criteri di specificità e di giusta causa richiesti dall’art. 2473 bis del codice civile.

La Corte, inoltre, ha ribadito il principio espresso nell’art. 2379 c.c. secondo cui sono colpite da nullità le modificazioni dell’atto costitutivo incidenti direttamente sulla posizione personale dei soci non adottate all’unanimità.

Da ultimo, riguardo al divieto del socio di intervenire nell’assemblea deliberante la sua esclusione con efficacia immediata, la Suprema Corte ravvisa una violazione dell’art 2479-ter.

Tale articolo, al terzo comma, dispone che “Le decisioni aventi oggetto illecito o impossibile e quelle prese in assenza assoluta di informazione possono essere impugnate da chiunque vi abbia interesse entro tre anni dalla trascrizione indicata nel primo periodo del primo comma. Possono essere impugnate senza limiti di tempo le deliberazioni che modificano l’oggetto sociale prevedendo attività impossibili o illecite”.

È lapalissiano quindi che la clausola che impedisce la partecipazione all’assemblea e che prevede la perdita immediata della qualità di socio, non consentendo a quest’ultimo di apprendere le ragioni poste alla base dello scioglimento del vincolo sociale, di poter consultare gli atti della società né, tantomeno, di avvalersi degli strumenti di difesa previsti dalla legge (impugnazione dinanzi al Tribunale ex art. 2479 ter) e dal contratto per i soli soci, deve essere dichiarata nulla.

Alla luce delle considerazioni appena svolte, possiamo pacificamente affermare che con tale ordinanza la Corte pone nuovamente l’accento sull’esigenza di contenere in precisi confini l’iniziativa dei privati palesando l’imprescindibilità di un intervento correttivo dell’interprete allo scopo di evitare forme di abuso pregiudizievoli degli interessi del socio di minoranza in contrasto con i principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.

Luca Chiaretti

[1] Anche questa previsione è figlia di una particolare attenzione del legislatore per l’interesse extrasociale alla soddisfazione del ceto creditorio. L’articolo, da una parte richiama quanto previsto dall’art. 2473 c.c. per la determinazione delle modalità di liquidazione della quota del socio escluso, dall’altra, fa esplicito divieto di operare il rimborso mediante una riduzione del capitale poiché questa comporterebbe una contestuale riduzione della garanzia dei creditori sociali.