Diritto civile
Published On: 3 Aprile 2014Categories: Articoli, Diritto civileBy

Violazione segreto bancario: quando c'è risarcimento per lesione diritto privacy

Il segreto bancario consiste nell’obbligo, da parte della banca, di non rivelare a soggetti terzi notizie relative al cliente, senza il preventivo consenso dello stesso. Tale obbligo soggiace tuttavia ad una serie di eccezioni, prima fra tutte la prevalenza del diritto all’informazione sulla solvibilità del cliente, rispetto al contrapposto interesse alla riservatezza, che   si concretizza nell’istituzione del servizio per la contabilizzazione dei rischi bancari, c.d. centrale rischi.

Per quanto attiene invece alle informazioni interbancarie, il D.lgs 196/2003 subordina il trattamento di dati ed informazioni personali all’espresso consenso dell’interessato, fatte salve alcune espresse limitazioni in sede processuale, nonché all’interno della normativa tributaria.

Il delicato rapporto tra l’obbligo di segretezza della banca ed il diritto alla riservatezza del cliente è stato affrontato dalla Suprema Corte con le sentenze n. 17014 del 2011, e n. 8451 del 2012. Con la prima delle due veniva affrontato il caso di un dipendente di un istituto di credito che, in occasione del versamento di un soggetto terzo di una somma di denaro sul conto corrente di un proprio cliente, rilasciava in busta aperta una contabile bancaria con l’indicazione del saldo. Con la seconda, la Cassazione decideva invece su un errore commesso dalla filiale che inviava l’estratto conto del proprio cliente all’indirizzo dell’abitazione materna, facendo così conoscere alla madre la grave situazione debitoria del figlio .

In entrambi i casi i correntisti lamentavano una violazione del proprio diritto alla riservatezza, avanzando istanza di risarcimento danni ai sensi dell’art. 152 D.Lgs. 196/2003 nei confronti del rispettivo Istituto di credito. Nel rigettare tali richieste, la Cassazione ribadiva che, per l’accoglimento dell’istanza risarcitoria, non è sufficiente che vi sia una violazione del diritto alla riservatezza in se considerato, poiché il danno non patrimoniale deve essere provato dal ricorrente secondo quanto previsto dall’art. 2043 c.c..

Infatti come sostenuto dalle S.U. nella pronuncia n. 26972 del 2008 “il pregiudizio che ha natura non patrimoniale, anche quando è determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona come per esempio quello alla riservatezza, costituisce un danno-conseguenza che deve essere allegato e provato”.

Il danneggiato dovrà quindi allegare tutti gli elementi che, nel caso concreto, sono idonei a dimostrare il fatto da cui è dipeso il danno, nonché il nesso causale che lega gli stessi, viceversa, incomberà sulla controparte l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie per evitare il pregiudizio.

Ne consegue che, nonostante il diritto alla privacy trovi un espresso fondamento nel D.Lgs. 196 del 2003, ed ancor prima nell’art. 2 della Costituzione, la sua violazione, anche qualora sia imputabile a soggetti qualificati, non costituisce un pregiudizio automaticamente risarcibile essendo necessaria la dimostrazione del danno.

Infatti dalle sentenze in esame emerge che, diversamente da quanto avviene per i c.d. dati sensibilissimi, relativi allo stato di salute ed alle preferenze sessuali dell’individuo, per i quali è prevista una tutela assoluta ed incondizionata, per i dati afferenti la situazione economica e patrimoniale della persona vi è una tutela attenuata, venendo gli stessi collocati in una posizione per così dire “intermedia” sulla scala dei valori da proteggere.

A tali pronunce si contrappongono i più recenti orientamenti dottrinali che riconducono il fondamento del segreto bancario nel più ampio principio di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c.  inerente qualunque rapporto obbligatorio, ed in virtù del quale, le parti, nell’esecuzione del contratto, devono comportarsi secondo le regole di correttezza e buona fede, a maggior ragione ove si tratti di soggetti qualificati, come gli istituti di credito, che agiscono in veste di professionisti e che, trovandosi a gestire un gran numero di dati personali,   hanno l’obbligo di prestare la massima cura nella gestione degli stessi, astenendosi dal rivelare notizie relative alla situazione patrimoniale dell’altro contraente.

Alla luce di questo secondo orientamento, la violazione del segreto bancario configurerebbe un vero e proprio inadempimento contrattuale con tutta una serie di conseguenze più favorevoli per il soggetto leso.

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Violazione segreto bancario: quando c'è risarcimento per lesione diritto privacy

Il segreto bancario consiste nell’obbligo, da parte della banca, di non rivelare a soggetti terzi notizie relative al cliente, senza il preventivo consenso dello stesso. Tale obbligo soggiace tuttavia ad una serie di eccezioni, prima fra tutte la prevalenza del diritto all’informazione sulla solvibilità del cliente, rispetto al contrapposto interesse alla riservatezza, che   si concretizza nell’istituzione del servizio per la contabilizzazione dei rischi bancari, c.d. centrale rischi.

Per quanto attiene invece alle informazioni interbancarie, il D.lgs 196/2003 subordina il trattamento di dati ed informazioni personali all’espresso consenso dell’interessato, fatte salve alcune espresse limitazioni in sede processuale, nonché all’interno della normativa tributaria.

Il delicato rapporto tra l’obbligo di segretezza della banca ed il diritto alla riservatezza del cliente è stato affrontato dalla Suprema Corte con le sentenze n. 17014 del 2011, e n. 8451 del 2012. Con la prima delle due veniva affrontato il caso di un dipendente di un istituto di credito che, in occasione del versamento di un soggetto terzo di una somma di denaro sul conto corrente di un proprio cliente, rilasciava in busta aperta una contabile bancaria con l’indicazione del saldo. Con la seconda, la Cassazione decideva invece su un errore commesso dalla filiale che inviava l’estratto conto del proprio cliente all’indirizzo dell’abitazione materna, facendo così conoscere alla madre la grave situazione debitoria del figlio .

In entrambi i casi i correntisti lamentavano una violazione del proprio diritto alla riservatezza, avanzando istanza di risarcimento danni ai sensi dell’art. 152 D.Lgs. 196/2003 nei confronti del rispettivo Istituto di credito. Nel rigettare tali richieste, la Cassazione ribadiva che, per l’accoglimento dell’istanza risarcitoria, non è sufficiente che vi sia una violazione del diritto alla riservatezza in se considerato, poiché il danno non patrimoniale deve essere provato dal ricorrente secondo quanto previsto dall’art. 2043 c.c..

Infatti come sostenuto dalle S.U. nella pronuncia n. 26972 del 2008 “il pregiudizio che ha natura non patrimoniale, anche quando è determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona come per esempio quello alla riservatezza, costituisce un danno-conseguenza che deve essere allegato e provato”.

Il danneggiato dovrà quindi allegare tutti gli elementi che, nel caso concreto, sono idonei a dimostrare il fatto da cui è dipeso il danno, nonché il nesso causale che lega gli stessi, viceversa, incomberà sulla controparte l’onere di provare di aver adottato tutte le misure necessarie per evitare il pregiudizio.

Ne consegue che, nonostante il diritto alla privacy trovi un espresso fondamento nel D.Lgs. 196 del 2003, ed ancor prima nell’art. 2 della Costituzione, la sua violazione, anche qualora sia imputabile a soggetti qualificati, non costituisce un pregiudizio automaticamente risarcibile essendo necessaria la dimostrazione del danno.

Infatti dalle sentenze in esame emerge che, diversamente da quanto avviene per i c.d. dati sensibilissimi, relativi allo stato di salute ed alle preferenze sessuali dell’individuo, per i quali è prevista una tutela assoluta ed incondizionata, per i dati afferenti la situazione economica e patrimoniale della persona vi è una tutela attenuata, venendo gli stessi collocati in una posizione per così dire “intermedia” sulla scala dei valori da proteggere.

A tali pronunce si contrappongono i più recenti orientamenti dottrinali che riconducono il fondamento del segreto bancario nel più ampio principio di correttezza e buona fede di cui all’art. 1175 c.c.  inerente qualunque rapporto obbligatorio, ed in virtù del quale, le parti, nell’esecuzione del contratto, devono comportarsi secondo le regole di correttezza e buona fede, a maggior ragione ove si tratti di soggetti qualificati, come gli istituti di credito, che agiscono in veste di professionisti e che, trovandosi a gestire un gran numero di dati personali,   hanno l’obbligo di prestare la massima cura nella gestione degli stessi, astenendosi dal rivelare notizie relative alla situazione patrimoniale dell’altro contraente.

Alla luce di questo secondo orientamento, la violazione del segreto bancario configurerebbe un vero e proprio inadempimento contrattuale con tutta una serie di conseguenze più favorevoli per il soggetto leso.

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