L’ELEMENTO PSICOLOGICO COME SPARTIACQUE TRA ESTORSIONE ED ESERCIZIO ARBITRARIO DELLE PROPRIE RAGIONI

Il reato di estorsione (art. 629 c.p.) e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone (art. 393 c.p.), essendo caratterizzati, a tratti, da labili confini hanno scaturito nel tempo differenti questioni giuridiche circa la sussistenza di una fattispecie o dell’altra.

La rimessione alla decisione della Corte Suprema è stata incentivata da una vicenda in cui gli elementi più dibattuti in giurisprudenza e dottrina erano venuti congiuntamente a sussistere. Nella fattispecie, era stata posta in essere una tentata estorsione da parte di più persone le quali si erano avvalse di un metodo mafioso. In particolare, la minaccia estorsiva era stata effettuata dal creditore ma confermata e ribadita da soggetti terzi estranei al diritto vantato.

A dirimere le incertezze sull’esistenza di un reato o dell’altro è intervenuta la Cassazione a sezioni unite penali che con la pronuncia n. 29541 del 2020 ha composto il contrasto sorto su tre questioni principali. Difatti si è disquisito sull’elemento che differenzia l’esistenza dei reati citati e nello specifico se i due delitti siano tra di loro differenziabili per l’elemento materiale ovvero quello psicologico, se il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni possa essere qualificato come reato comune e/o di “mano propria” e di conseguenza la qualificazione del concorso del terzo non titolare della pretesa giudizialmente tutelabile nel reato.

In ordine, la differenza esistente tra i due delitti, in conformità con quanto affermato già dalla dottrina maggioritaria, è stata rintracciata nell’elemento psicologico del reato a scapito di quello materiale.

Con riferimento al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è appurato come nello stesso, l’agente, persegua un profitto nella convinzione ragionevole di esercitare un suo diritto giudizialmente azionabile, seppur in concreto infondata. Nel caso dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il soggetto attivo agisce forte della legittimità della sua pretesa.

Con riferimento all’elemento psicologico dei due reati, la differenza sostanziale consiste nel fatto che nel caso di estorsione il profitto ricercato è invece oggetto di una pretesa del tutto illegittima.

L’elemento discretivo risulta quindi la pretesa in astratto di un diritto “ragionevolmente suscettibile di essere giudizialmente tutelato” che funge da movente.

Affinché la violenza o la minaccia usate per far valere il proprio diritto possano trovare spazio nei limiti dell’articolo 393 c.p., l’oggetto della richiesta effettuata deve essere totalmente corrispondente a quello tutelato dall’ordinamento mentre la «gravità della violenza e l’intensità della minaccia […] non devono trasmodare in manifestazioni sproporzionate e gratuite, travalicanti il ragionevole intento di far valere un diritto» (Cass. Pen., Sez. II, 23.10.2015, n. 42734).

Ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico vengono prese in considerazione le ordinarie regole probatorie. La prova del dolo, pertanto, viene dedotta principalmente in maniera indiretta, osservando gli elementi esterni attinenti la condotta ove non siano presenti ammissioni dirette dello stesso soggetto attivo.

L’orientamento contrario prediligeva invece ai fini della differenziazione tra i due delitti l’elemento materiale. Lo stesso descriveva il metodo minaccioso o violento della condotta come mezzo accidentale di cui l’agente si avvaleva per vedere rispettato il proprio diritto e quindi finalizzato alla realizzazione di questo (Cass. Pen., Sez. VI, 07.02.2017, n. 11823; Cass. Pen., Sez. II, 08.06.2017, n. 33712; Cass. Pen., Sez. V, 15.07.2019, n. 35563).

In relazione a quanto osservato le Sezioni Unite sono giunti alla conclusione per cui i due reati si differenziano in relazione all’elemento psicologico. Nello specifico «la materialità dei reati di esercizio arbitrario delle proprie ragioni e di estorsione non appare sovrapponibile» (Cass. Pen., Sez. II, 17.02.2016, n. 11453) poiché soltanto ai fini dell’integrazione della fattispecie tipica di estorsione è normativamente richiesto il verificarsi di un effetto di “costrizione” della vittima, conseguente alla violenza o minaccia, seppur queste ultime costituenti elemento costitutivo comune ad entrambi i reati.

Infine, con riferimento al punto trattato è confermato l’orientamento per cui è soggetto attivo del reato ex art. 393 c.p. colui che esercita il preteso diritto anche senza averne la titolarità ma si comporta ai fini del reato come fosse il vero titolare del diritto vantato (Cass. pen., Sez. VI, 08.03.2013 n. 23322).

Il secondo punto chiarito riguarda la natura stessa del reato in questione, definito come reato proprio non esclusivo. La locuzione indicata fa riferimento al soggetto attivo la cui qualifica gli è conferita dagli interessi che intende tutelare e che gli concedono la possibilità di porre in essere la condotta offensiva incriminata ovvero limitano il trattamento sanzionatorio di favore.

Anche a riguardo, la giurisprudenza nel tempo si è schierata secondo orientamenti contrapposti. Una parte ha infatti sostenuto, facendo riferimento all’incipit “chiunque” dell’articolo 393 c.p. che si trattasse di un “reato comune”.

L’orientamento più recente definisce invece il reato come “proprio di mano propria” in quanto è legittimato a commetterlo solo il titolare del preteso diritto ovvero colui che esercita in sua vece il suddetto diritto o ancora il negotiorum gestor. Alla base della visione vi sarebbe la motivazione principale per cui non possa essere tollerata l’azione di un terzo estraneo che sovvenendo alle prerogative amministrative dello Stato si sostituisca a quest’ultimo. Qualora ciò accada, la condotta posta in essere non è catalogabile come esercizio arbitrario delle proprie ragioni ex art. 393 c.p.

Con riferimento al concorso di persone nel reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che in relazione alla definizione del reato come di tipo “proprio esclusivo”, i terzi che agiscono con violenza o minaccia ma estranei al rapporto obbligatorio fondato sulla pretesa di un diritto giudizialmente azionabile non integreranno mai il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Quest’ultimo sussiste invece quando il soggetto terzo agisca secondo queste modalità ma in nome o per conto del titolare, come nel caso di mandatari, congiunti o dipendenti (Cass. 25.7.1934, Landinia, Giust. Pen., 1935, II, 799).

Il possibile coinvolgimento di un terzo “qualificato” è stato ribadito anche in questa pronuncia della Corte Suprema che ha stabilito l’esistenza di un concorso nel reato di esercizio abusivo delle proprie ragioni, quando i concorrenti si limitino a perseguire l’interesse esclusivo del creditore sempre nei limiti in cui sarebbe stato in astratto giudizialmente tutelabile offrendo soltanto «un contributo alla pretesa di chi abusa delle proprie ragioni senza perseguire alcuna diversa e ulteriore finalità».

 

Dott. Mauro Giallombardo

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