Un cambio di rotta della Suprema Corte sulle operazioni soggettivamente inesistenti

ottobre 15th, 2020|Articoli, Diritto penale|

L’incertezza sui fornitori delle prestazioni, nonché sulla veridicità dei dati contabilizzati rispetto a quelli fatturati, sono di per sé sufficienti per ritenere sussistente l’intento criminoso.”

La Corte di Cassazione, in occasione della pronuncia n. 36359 del 23 Agosto del 2019 relativa alla configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta realizzato mediante l’utilizzo di fatture inesistenti, ha enunciato il peculiare principio per cui il reato di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74 del 2000 può ritenersi realizzato anche in caso di “inesistenza soggettiva” dell’operazione, non essendo necessario dimostrare la collusione fra l’emittente la fattura e il suo utilizzatore.

A tal proposito, va preliminarmente chiarito che l’espressione “operazioni inesistenti” non è evocativa di una fattispecie giuridicamente omogenea, costituendo piuttosto un genus al cui interno è dato rinvenire due species completamente differenti: da un lato, quella delle operazioni fittizie da un punto di vista oggettivo, vale a dire delle operazioni in cui la cessione non è materialmente posta in essere; dall’altro, quella delle operazioni inesistenti soltanto sul piano soggettivo, nelle quali, dunque, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture che ha regolarmente versato il corrispettivo, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato nella fattura siano falsi.

In particolare, la falsità delle fatture rivestirebbe carattere soggettivo, ogni qual volta l’operazione sia stata effettivamente posta in essere, ma tra soggetti diversi da quelli figuranti cartolarmente come parti del rapporto. Ciò, poiché anche la falsa indicazione dell’emittente o del destinatario della fattura stessa, si ripercuote, viziandola, sulla veridicità dell’attestazione documentale della transazione, consentendo all’utilizzatore di dedurre costi effettivamente sostenuti ma, tuttavia, non documentati o non documentabili ufficialmente per le ragioni più svariate.

Con specifico riferimento all’impiego, nell’ambito delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi, di fatture relative ad operazioni inesistenti solo dal punto di vista soggettivo, si è posta, in dottrina e giurisprudenza, la questione della loro compatibilità con l’art. 2 del D.Lgs. n.74/2000.

Infatti, poiché il delitto previsto e punito dall’art. 2 D.Lgs. n.74/2000 possa dirsi integrato, è necessario che sussistano tre differenti elementi: innanzitutto, che siano impiegate fatture per operazioni inesistenti; poi, che simile condotta porti all’inserimento in dichiarazione dei redditi di elementi passivi fittizi e, in ultimo, che il soggetto attivo agisca allo scopo di evadere le proprie imposte, concretizzandosi nel dolo specifico di evasione.

In merito a quest’ultimo profilo, se in passato la giurisprudenza dominante tendeva a considerare necessario provare, in capo all’utilizzatore delle fatture, il dolo specifico di evasione, quale terzo elemento costitutivo che deve obbligatoriamente accompagnare la condotta dell’agente, la pronuncia in commento ha sensibilmente mutato la prospettiva.

La Corte di Cassazione, infatti, nell’annullare senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello, ha affermato il principio di diritto per cui per ritenere integrato il reato di dichiarazione fraudolenta, sconfessando il precedente indirizzo maturato presso gli stessi Giudici, non occorrerebbe dimostrare la collusione fra l’emittente e l’utilizzatore della fattura.

In base a tale orientamento, i costi possono essere detratti solo in quanto rispondano ai criteri di inerenza, effettività, completezza, certezza e determinatezza che informano l’ordinamento tributario (Cass., nn. 28145/2013 e 2039/2018). Infatti, l’incertezza sui fornitori nonché sulla veridicità dei dati contabilizzati rispetto a quelli fatturati sono elementi di per sé sufficienti per ritenere sussistente l’elemento psicologico previsto dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000.

Dunque, affinché possa ritenersi integrato il dolo di evasione, non sarebbe necessaria la prova della collusione fra l’emittente e il fornitore, e ciò per due ordini di motivi: in primo luogo perché non è certa nemmeno l’effettiva corrispondenza tra i costi documentati e quelli realmente sostenuti e, in secondo luogo, perché non sarebbe possibile giungere a differenti conclusioni nemmeno nel caso in cui fossero ignoti solo i fornitori ma vi fosse corrispondenza tra i corrispettivi fatturati e quelli pagati all’impresa terza.

Ciò, in quanto il soggetto che effettua la prestazione di servizi imponibile ai fini Iva è tenuto ad addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa al committente che, a sua volta, ha la facoltà di detrarre dall’imposta il quantum a lui addebitato.

Proiettando, quindi, tale contesto sul versante penalistico, la Corte ha sostenuto che, nel delitto di utilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, il dolo è ravvisabile nella consapevolezza di chi utilizza il documento in dichiarazione, che colui che ha effettivamente reso la prestazione non ha provveduto alla fatturazione del corrispettivo versato dall’emittente, conseguendo in tal modo un indebito vantaggio fiscale in quanto l’imposta versata dall’utilizzatore della fattura non è stata effettivamente pagata dall’esecutore della prestazione medesima.

Nella fattispecie al suo vaglio, la Suprema Corte ha concluso che non è necessaria la “collusione” tra emittente ed utilizzatore della fattura emessa a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti.

Dott.ssa Giorgia Gennari

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