Decoro architettonico, la legittimità alla tutela del singolo condomino

Con ordinanza n. 28465 del 2019 la Corte di Cassazione si è soffermata sulle alterazioni al cosiddetto decoro architettonico di un fabbricato.

La vicenda prende avvio da una richiesta giudiziale di un condomino nei confronti del confinante diretta alle rimozione di una struttura in legno e di un casotto infissi nel cornicione ed ai pilastri del fabbricato per violazione dell’art. 1102 c.c., comma 2 e dell’art. 7 del regolamento di condominio, che sancivano il divieto assoluto di apportare qualsiasi modifica alle parti esterne o nelle zone comuni dell’edificio, che comunque alterassero l’aspetto architettonico dell’immobile.

Il Tribunale di Napoli rigettava la domanda non ritenendo che la costruzione potesse compromettere il decoro architettonico.

Di diverso avviso, la Corte di Appello che, invece, condannava il condomino alla rimozione del manufatto costituendo opera che violava il cd. “decoro architettonico”.

Il Convenuto ricorreva in cassazione affidandosi a tre motivi lamentandosi in particolare che l’art. 7 del medesimo regolamento condominiale facesse riferimento al concetto di “aspetto architettonico“, più rigoroso di quello di “decoro architettonico”, e che comunque esso andasse interpretato in modo da vietare qualsiasi modifica allo stato dell’edificio, non tenendo in alcun modo conto dell’esistenza di precedenti modifiche che avevano già ampiamente alterato l’aspetto e il decoro architettonico.

E’ bene ricordare la differenza tre le innovazioni, di cui propriamente all’art. 1120 c.c., dalle modificazioni, disciplinate invece dall’art. 1102 c.c.: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (da ultimo, Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).

E’ evidente che il manufatto costituisca una modifica alla cosa comune eseguita per l’interesse del singolo condomino e non della collettività.

Secondo gli Ermellini – proprio con riguardo a disposizioni che, come l’art. 7 del regolamento del Condominio stabiliscano il “divieto assoluto di apportare qualsiasi modifica alle parti esterno dell’edificio o nelle zone comuni, che comunque alterino l’attuale aspetto architettonico dell’edificio” – riconosce all’autonomia privata la facoltà di stipulare convenzioni che pongano limitazioni nell’interesse comune ai diritti dei condomini, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti comuni o di loro esclusiva proprietà. Inoltre, il regolamento può validamente dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 c.c. e supposta dal medesimo art. 1102 c.c., arrivando al punto di imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica ed all’aspetto generale dell’edificio (cfr. indicativamente Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4509; Cass. Sez. 2, 02/05/1975, n. 1680; Cass. Sez. 2, 29/04/2005, n. 8883; Cass. Sez. 2, 24/01/2013, n. 1748; Cass. Sez. 2, 19/12/2017, n. 30528.).

Il regolamento di condominio può, del resto, validamente derogare alle disposizioni dell’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 09/11/1998, n. 11268).

Da ciò consegue che modificazioni apportate da uno dei condomini, nella specie alle parti comuni, in violazione del divieto previsto dal regolamento di condominio, connotano tali opere come abusive e pregiudizievoli al decoro architettonico dell’edificio e configurano l’interesse processuale del singolo condomino che agisca in giudizio a tutela della cosa comune (cfr. Cass. Sez. 2, 09/06/1988, n. 3927; Cass. Sez. 2, 15/01/1986, n. 175).

Il decoro architettonico, che caratterizzi la fisionomia dell’edificio condominiale, è un bene comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare (Cass. Sez. 2, 04/04/2008, n. 8830). Il giudizio relativo all’impatto di un’innovazione sul decoro architettonico dell’edificio si basa, peraltro, su un’indagine di fatto tipicamente demandata al giudice del merito (Cass. Sez. 2, 11/05/2011, n. 10350; Cass. Sez. 2, 07/02/1998, n. 1297), rimanendo il relativo apprezzamento sindacabile in sede di legittimità soltanto nei limiti di cui al vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

È stato parimenti più volte ribadito che la tutela del decoro architettonico – di cui all’art. 1120 c.c., comma 2, nella formulazione applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis (art. 1120 c.c., comma 4, art. 1122 c.c., comma 1 e art. 1122-bis c.c., dopo le modifiche introdotte con L. n. 220 del 2012) – è apprestata in considerazione della apprezzabile alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell’edificio, od anche di sue singole parti o elementi dotati di sostanziale autonomia, e della consequenziale diminuzione del valore dell’intero edificio e, quindi, anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo compongono. Ne consegue che il giudice, per un verso, deve adottare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore in considerazione delle caratteristiche del singolo edificio e/o della parte di esso interessata, accertando anche se esso avesse originariamente ed in qual misura un’unitarietà di linee e di stile, suscettibile di significativa alterazione in rapporto all’innovazione dedotta in giudizio, nonché se su di essa avessero o meno già inciso, menomandola, precedenti innovazioni. Per altro verso, il giudice deve accertare che l’alterazione sia appariscente e di non trascurabile entità e tale da provocare un pregiudizio estetico dell’insieme suscettibile di un’apprezzabile valutazione economica, mentre detta alterazione può affermare senza necessità di siffatta specifica indagine solo ove abbia riscontrato un danno estetico di rilevanza tale, per entità e/o natura, che quello economico possa ritenervisi insito.

Per questi motivi la Corte ha rigettato il ricorso.

Avv. Gavril Zaccaria