Bancarotta fraudolenta documentale, il giudice deve provare il dolo specifico

settembre 8th, 2019|Articoli, Focus, Simona Arcieri|

La legge fallimentare [1], all’art. 216, punisce con la reclusione da tre a dieci anni per il reato di bancarotta fraudolenta l’imprenditore [2] che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.[3]

Sono perciò due le fattispecie di bancarotta fraudolenta previste dalla norma in oggetto e rispettivamente: la prima ipotesi configura il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (cd. bancarotta fraudolenta in senso stretto) il cui bene giuridico tutelato è il patrimonio dei creditori;  la seconda ipotesi invece attiene alla bancarotta fraudolenta documentale e tutela invece l’esatta conoscenza del patrimonio del debitore da parte del creditore. La differenza tra le due tipologie di bancarotta consiste nel fatto che mentre nel caso della bancarotta fraudolenta patrimoniale è sufficiente il dolo generico; la bancarotta fraudolenta documentale è un reato di danno a dolo specifico, poiché è necessario provare la volontà dell’imprenditore di recare un pregiudizio  ai creditori.

Nello specifico il  secondo comma dell’art. 216 l.fall. ha ad oggetto le scritture contabili, le quali consentono appunto al creditore di avere una conoscenza documentata e giuridicamente utile del patrimonio del fallito. È bene precisare che rientrano nell’oggetto materiale sia le scritture contabili obbligatorie, ex art. 2214 c.c [4]., sia le scritture contabili facoltative che sono idonee alla ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

Sul punto la Cassazione ha infatti precisato: “in tema di irregolare tenuta dei libri contabili nei reati fallimentari, a differenza del reato di bancarotta semplice in cui l’illiceità della condotta è circoscritta alle scritture obbligatorie ed ai libri prescritti dalla legge, l’elemento oggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale riguarda tutti i libri e le scritture contabili genericamente intesi, ancorché non obbligatori; in quest’ultima ipotesi, si richiede, inoltre, il requisito dell’impedimento della ricostruzione del volume d’affari o del patrimonio del fallito, elemento, invece, estraneo al fatto tipico descritto nell’art. 217, comma 2, l. fall. Diverso è, infine, l’elemento soggettivo, costituito nell’ipotesi di bancarotta semplice indifferentemente dal dolo o dalla colpa, mentre nell’ipotesi di cui all’art. 216, comma 1, n. 2, prima parte, l. fall. dal dolo generico.” [5]

In merito, poi, alle diverse condotte punibili distinguiamo:

– la sottrazione: trattasi di una condotta volta a sottrarre la possibilità di acquisizione dei libri e delle altre scritture contabili.

– la falsificazione: condotta consistente nella falsificazione (materiale o ideologica, totale o parziale) di un documento e di conseguenza nella sostituzione di un quello originario con uno falso.

– la tenuta caotica dei libri e delle scritture contabili: anche in questo caso trattasi di attività di falsificazione intesa in senso lato, consistente in alterazioni e manomissioni tali da rendere impossibile il soddisfacimento dei creditori: “sussiste il reato di bancarotta documentale a carico di un imprenditore qualora risulti provata la tenuta altamente irregolare dei libri contabili, l’emissione di fatture per operazioni del tutto inesistenti, il frequente ricorso a storni e giroconti che rendano difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e dei movimenti bancari della società. Né, a fronte di un ampio materiale probatorio documentale, possono assumere rilevanza le eventuali testimonianze utilizzate dall’imprenditore stesso al fine di accertare la veridicità dei movimenti bancari effettuati”. [6]

L’elemento psicologico nella bancarotta fraudolenta documentale

Per quanto attiene, invece, l’elemento psicologico – nell’ipotesi di cui all’art. 216, comma 1, comma 2 l. fall. – questo si distingue a seconda che si tratti di sottrazione, distruzione e falsificazione o di tenuta caotica dei libri e delle scritture contabili e, nello specifico:

  • se trattasi di sottrazione o distruzione dei libri e delle altre scritture contabili, è richiesto il dolo specifico [7], consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori;
  • se, invece, la condotta si estrinseca nella tenuta caotica della contabilità è richiesto il dolo generico, inteso come consapevolezza da parte del soggetto agente che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende patrimoniali, non essendo, per contro, necessaria la specifica volontà di impedire quella ricostruzione. [8]

Nell’ipotesi dunque di sottrazione e distruzione dei libri – prima parte dell’art. 216 comma 2 l.fall. -è necessario che venga provato il dolo specifico in capo all’imprenditore  e in particolare, come precisato recentemente dalla giurisprudenza [9], il giudice dovrà dimostrare che questi ha agito con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori: “Nel caso in esame è stata contestata e ritenuta dai giudici di merito la prima ipotesi, vale a dire quella relativa alla sottrazione, distruzione o omessa tenuta dei libri e delle altre scritture contabili, che richiede il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori. Sull’elemento soggettivo così configurato nulla è detto dalla sentenza di appello, che addirittura, in un passaggio della motivazione, richiama l’art. 217 legge fall., e che, al pari di quella di primo grado, fa generico riferimento alla impossibilità di ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari, elemento oggettivo estraneo alla fattispecie in esame che invece entra nel fuoco del dolo generico della seconda ipotesi. Tale vizio motivazionale comporta l’annullamento della sentenza impugnata”.

Il giudice quindi non può ritenere sufficiente la sussistenza del dolo generico ma dovrà invece provare la specifica volontà dell’imprenditore di recare un pregiudizio ai creditori (cd. dolo specifico) nonché individuare correttamente quale delle condotte previste all’art. 216 comma 2 l.fall. è da imputare all’imprenditore.

Quanto invece all’elemento psicologico previsto per le condotte di cui alla seconda parte dell’art. 216 comma 2 l.fall. – ossia la tenuta caotica della contabilità –  recentemente la Corte di Cassazione, Sez. V, con la sentenza del 07.04.2015 n. 50098, si è discostata dall’orientamento maggioritario di cui sopra (dolo generico) e ha invece previsto che l’omessa tenuta della contabilità interna integra gli estremi del reato solo qualora si accerti che scopo dell’omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori, ossia quando si riesca a provare la sussistenza del dolo specifico e non semplicemente di quello generico. [10]

Perciò alla luce di questo orientamento per questa fattispecie sarebbe necessario provare il dolo specifico e non semplicemente quello  generico, non risultando sufficiente che l’autore del delitto si rappresenti il danno per i creditori conseguente all’impossibilità di ricostruire il patrimonio della società. Infatti l’esistenza dell’elemento soggettivo non può essere desunta dal solo fatto che lo stato delle scritture sia tale da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, poiché in quest’ipotesi è necessario chiarire la ragione e gli elementi sulla base dei quali l’imputato abbia avuto coscienza e volontà di realizzare detta oggettiva impossibilità. Non è infatti sufficiente l’aver trascurato semplicemente la regolare tenuta delle scritture, atteso che, in quest’ultimo caso, si integra l’atteggiamento psicologico del diverso e meno grave reato di bancarotta semplice di cui all’art. 217, comma secondo, legge fallimentare. [11]

Sulla necessità che venga provato il dolo specifico nell’ipotesi di tenuta caotica della contabilità interna preme infine richiamare un’altra pronuncia della Suprema Corte, Sez. V Penale, 4 Maggio 2018  n. 23620.

La pronuncia trae origine dal ricorso dell’imputato avverso la sentenza della Corte d’Appello che aveva confermato la sentenza di primo grado e individuato nella condotta dell’imputato una consapevole volontà di omessa tenuta delle scritture contabili. Tale condotta, ad avviso del ricorrente, integrava tutto al più la fattispecie di bancarotta semplice in quanto non era stata fornita la prova che l’imputato avesse omesso la tenuta delle scritture per arrecare pregiudizio ai creditori, rendendo impossibile la ricostruzione degli affari.

La Suprema Corte, in merito, ha evidenziato che “in tema di bancarotta fraudolenta documentale, del tutto pacifico è il principio di diritto in forza del quale per la configurazione delle ipotesi di reato di sottrazione, distruzione o falsificazione di libri e scritture contabili previste dall’art. 216, primo comma, n. 2, prima parte, legge fallimentare è necessario il dolo specifico, consistente nello scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori”; mentre l’omessa tenuta della contabilità integra gli estremi del reato di bancarotta documentale fraudolenta – e non quello di bancarotta semplice – “solo qualora si accerti che scopo dell’omissione sia quello di recare pregiudizio ai creditori, che altrimenti risulterebbe impossibile distinguere tale fattispecie da quella analoga sotto il profilo materiale, prevista dall’art. 217 della legge fallimentare, e punita sotto il titolo di bancarotta semplice documentale [12]”.

Alla luce di questo principio, si giunge alla conclusione che le condotte previste all’art. 216 comma 2, l.fall., ossia quelle di mancata consegna, sottrazione, distruzione e di omessa tenuta della documentazione contabile appaiono essere tra loro equivalenti sotto il profilo dell’elemento psicologico, con la conseguenza che anche per la fattispecie di tenuta caotica della contabilità sarà necessario accertare il dolo specifico – e non più semplicemente quello generico – e di conseguenza acquisire la prova in capo all’imprenditore dello scopo di recare pregiudizio ai creditori e di rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari.

_______

NOTE

[1] Disciplina del R.D. 16 marzo 1942 n. 267 (c.d. Legge Fallimentare).

[2] Sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione, nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1) un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi 2) un’attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) un’attività

di trasporto per terra, per acqua o per aria;4) un’attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti.

[3] Il 14 febbraio 2019 è stato pubblicato, in attuazione della legge delega 19 ottobre 2017 n. 155 (Delega al Governo per la riforma delle discipline della crisi di impresa e dell’insolvenza), il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCI), approvato il 10 gennaio 2019 dal Consiglio dei Ministri e contenuto nel D.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14. Nel titolo IX del nuovo codice (“Disposizioni Penali”) l’art. 322 riproduce l’art. 216 della legge fallimentare.

[4] Art. 2214 c.c.: “L’imprenditore che esercita un’attività commerciale deve tenere il libro giornale e il libro degli inventari. Deve altresì tenere le altre scritture contabili che siano richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa e conservare ordinatamente per ciascun affare gli originali delle lettere, del telegrammi e delle fatture ricevute, nonché le copie delle lettere, dei telegrammi e delle fatture spedite.”

[5] Cassazione penale, Sez. V, 14/11/2016, n.55065.

[6] Cass. penale, Sez. I, sentenza 18 novembre 2010, n. 40809.

[7] Cassazione penale, Sez. V, 19/02/2019, n.10647.

[8] Cassazione penale, sez. V, sentenza n. 5364/2013 e sentenza n. 21872/2010 –  sentenza n. 18634/2017, Corte appello Roma sez. II, 25/01/2017, n.55.

[9] Da ultimo Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 32001/19 del 18.07.19 –  Cassazione penale, Sez. V, sentenza n. 12544/2019.

[10] Cassazione penale, Sez. V, 11/04/2012, n.25432.

[11] Cassazione penale, Sez. V, 22/05/19 , n. 26613 – Cassazione penale, Sez. V, 29/04/2014, n.23251.

[12] È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente: 1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica; 2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; 3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; 5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare. La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

Simona Arcieri