Il focus: la responsabilità penale del delegato del giudice dell’esecuzione

giugno 9th, 2019|Articoli, Diana De Gaetani, Focus|

Nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto la divisione di un bene in comunione spicca la figura di colui il quale si occupa delle operazioni divisionali: l’ausiliario del giudice dell’esecuzione. Infatti, la vendita di un immobile in comunione si innesta all’interno di una procedura esecutiva guidata dal giudice dell’esecuzione. Quest’ultimo affida l’esecuzione delle operazioni ad un delegato, in veste di ausiliario del giudice.

Generalmente il professionista incaricato di seguire le operazioni di vendita è un notaio. Quest’ultimo – con la delega del giudice – è incaricato di vendere l’immobile e dividere il ricavato tra i comproprietari, secondo le indicazioni fornite nell’atto di nomina. Con la medesima ordinanza, infatti, il giudice ai sensi dell’art. 569 c.p.c. stabilisce le modalità e i termini entro cui debbono svolgersi le operazioni.

Qualora il professionista si discosti da quanto indicato dal G.E. è considerato responsabile dell’operazioni espletate. Tale responsabilità è stata precisata dalla Suprema Corte di Cassazione (con sentenza del 20.02.2018, n. 4007). Il professionista delegato, operando come ausiliario del giudice, svolge una funzione pubblica, non una semplice prestazione professionale.

Per capire meglio la distinzione occorre ricostruire brevemente i fatti a fondamento di tale pronuncia.  La decisione della Corte prende le mosse da un giudizio avente ad oggetto la vendita di un immobile in comproprietà tra due eredi. Con l’atto di nomina del professionista, il tribunale disponeva che il ricavato della vendita fosse versato su un conto cointestato. Prima della fine delle operazioni, tuttavia, il giudizio di primo grado si concludeva con la decisione del giudice di ripartire il ricavato tra i due eredi, attribuendo il 90% ad uno, e il 10% all’altro. Il notaio ritenendo di poter seguire la decisione del giudice di primo grado, ripartiva le somme tra i coeredi in questo modo, disattendendo le indicazioni dell’atto con cui gli era stato conferito l’incarico. La decisione di primo grado, però veniva impugnata e la Corte d’Appello stabiliva una diversa ripartizione, attribuendo il 50% a ciascuno dei comproprietari. Tuttavia, le somme, ormai pervenute nella disponibilità dei due eredi, risultavano irrecuperabili. Il notaio dunque è stato ritenuto responsabile dell’accaduto.

A questo punto sorge naturale domandarsi: che tipo di responsabilità può essere attribuita al delegato del giudice di una procedura esecutiva? Il delegato, quale ausiliario del giudice, in primis sarà responsabile civilmente per aver disatteso le indicazioni dell’ordinanza di delega di cui all’art. 569 c.p.c. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, dunque, non si tratta di una responsabilità contrattuale, poiché il delegato non assume un vincolo con gli eredi. L’ordinanza del giudice delegato è considerata la lex specialis che disciplinerà la responsabilità civile del delegato.

Qualora, poi, negli atti della vendita curata dal delegato risultassero delle difformità rispetto alla realtà potrebbero sorgere dei profili di responsabilità penale. Si pensi all’ipotesi in cui il professionista accerti, nell’atto di vendita, uno stato del bene diverso da quello reale. Tale divergenza potrebbe pregiudicare i bisogni dell’aggiudicatario. Solo per fare qualche esempio: pensiamo ad un immobile che si riveli inservibile per la sua differente funzione economico-sociale.

La qualificazione giuridica del professionista incide sui confini della responsabilità per i danni causati.  Non essendo un magistrato, ma un mero ausiliario, al professionista delegato non è applicabile la disciplina prevista dalla Legge n 117/1998, che disciplina la “Responsabilità dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”. Tuttavia, egli esplica una funzione di pubblico interesse, assumendo – nell’ambito delle operazioni – la veste di pubblico ufficiale.

Ai sensi dell’art. 357 c.p. «Agli effetti della legge penale, sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

Agli stessi effetti è pubblica la funzione amministrativa disciplinata da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi e caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione o dal suo svolgersi per mezzo di poteri autoritativi o certificativi».

La norma, attribuisce la qualifica di pubblico ufficiale attraverso un criterio esclusivamente funzionale, ovvero in base all’attività svolta dal soggetto. L’attività potrà consistere in una pubblica funzione:

–  legislativa, giudiziaria, o amministrativa;

-specificando poi la funzione amministrativa rilevante. Infatti, in base al secondo comma della norma, la funzione amministrativa può essere svolta anche da un dipendente pubblico, da un cittadino o privato professionista, purché sia un’attività:

  1. a) disciplinata da norme di diritto pubblico o atti autoritativi;
  2. b) che esprima la formazione/manifestazione della volontà della P.A.

Il notaio delegato dal giudice rientra certamente nella categoria di coloro i quali esercitano una pubblica funzione manifestando la volontà della P.A. per mezzo di poteri certificativi e autoritativi. Dunque, il professionista delegato, essendo titolare di una funzione di pubblico interesse è equiparato al pubblico ufficiale

La qualificazione di pubblico ufficiale comporta l’applicazione di tutte quelle norme penali poste a tutela della pubblica amministrazione, nello specifico il Capo Primo del codice Penale, dedicato ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

Si tratta di una categoria di reati che si caratterizza dal punto di vista soggettivo per la qualifica dell’autore: pubblico ufficiale e incaricato di pubblico servizio; e dal punto di vista del bene giuridico tutelato essendo delle norme poste a tutela del corretto funzionamento della funzione pubblica e del prestigio della P.A.

L’applicazione dello statuto penalistico del pubblico ufficiale implica il principio di specialità, in base al quale se il fatto integra un’ipotesi di reato comune, lo stesso fatto posto in essere espletando una funzione pubblica verrà ricondotto nella categoria dei delitti dei pubblici ufficiali (es. il reato comune di appropriazione indebita diventerebbe peculato).

Tale inquadramento comporta delle sanzioni più gravi rispetto alle corrispondenti ipotesi di reato comune.

In conclusione, nell’ambito della procedura esecutiva il delegato del giudice dell’esecuzione (equiparato definitivamente al pubblico ufficiale) potrebbe rispondere: di falsità in atti sia materiale (ex. art. 476, 477 e 478 c.p.) che ideologica (ex art. 479, e 480 c.p.); di abuso d’ufficio (ex. art. 323 c.p.) se procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o causa ad altri un danno ingiusto; di peculato (ex. art 314) se si appropria indebitamente delle somme; o di omissioni di atti di ufficio (ex. art. 328) se non compie le operazioni richieste dal giudice nei tempi stabiliti.

 

Norme di riferimento:

Art. 323. Abuso d’ufficio

Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

Art. 314. Peculato

Il pubblico ufficiale [357] o l’incaricato di un pubblico servizio [358], che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro anni a dieci anni e sei mesi. [316 bis, 317 bis, 323 bis] (3).

Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita

Art. 328 del codice penale

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.
Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l’atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a milletrentadue euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

Diana De Gaetani