Culpa in vigilando: il precettore deve provare l’imprevedibilità del fatto

Con la sentenza n. 14216 del 2018 la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato il tema della responsabilità del precettore per culpa in vigilando.

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguardava un triste caso di omicidio commesso da un ragazzo minorenne a danno di un altro giovane di 15 anni all’esito di una lite avvenuta all’interno dell’esercizio commerciale in cui l’omicida svolgeva l’attività di apprendista.

Con il quarto motivo di ricorso, i genitori dell’omicida sostenevano che la sentenza emessa dal giudice del gravame, la quale escludeva la responsabilità del precettore, fosse affetta da vizio di violazione di legge ex art. 360 c.p.c. n. 3. I ricorrenti lamentavano, nello specifico, la violazione dell’art. 2048 c.c., disposizione che sancisce la responsabilità dei precettori, o di chi insegna un mestiere o un’arte, per il danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi ed apprendisti nel tempo in cui questi sono posto sotto la loro vigilanza.

Gli ermellini, nel motivare la sentenza, hanno dato luogo ad una profonda analisi della genesi normativa della disposizione sopra citata, riconoscendo che trattasi di un principio di diritto frutto di una tradizione giuridica millenaria e quindi trasfuso all’interno delle codificazioni moderne.

In particolare, l’onerosa prova liberatoria posta in capo al precettore ex art. 2048 c.c. terzo comma, ovvero “il non aver potuto impedire il fatto” sarebbe giustificata in quanto, come testimoniato dal titolo XXIV del Codex Iustiniani De casu fortuito, questi non ha potuto prevedere ed evitare il fatto produttivo di danno (“Quae fortuitis casibus accidunt, cum praevideri non potuerint, nullo bonae fideijudicio praestantur”).

Chi vigila, sottolineano i giudici di legittimità, è quindi onerato dal dimostrare che l’illecito era imprevedibile o inevitabile. Come già espresso da copiosa giurisprudenza, infatti, è in colpa chi, pur potendo prevedere o prevenire l’evento, non lo faccia (Cass n.2463/1995).

Nel caso di responsabilità professionale, più nello specifico, il criterio di valutazione della condotta, sia in sede contrattuale che extracontrattuale, si rifà al rispetto del canone di dovuta diligenza, quale è quella che avrebbe tenuto il maestro d’arte medio, serio, coscienzioso ed avveduto nella medesima situazione.

Il primo dovere dei maestri e dei precettori, come affermato ripetutamente dalla Cassazione in tema di infortuni scolastici (Cass. n. 9742/1997; n. 2342/1977), è quello della presenza (come altresì desumibile dall’oggi abrogata l. 19/01/1955 n. 25), non potendo l’insegnamento necessario al fine dell’apprendimento di un’arte o professione svolgersi inter absentes.

Nel caso di specie, infatti, nonostante il precettore/titolare non fosse presente al momento del fatto nei locali commerciali, il giudice di merito aveva ritenuto che questi non versasse in colpa in vigilando perché “arrivato solo dieci minuti dopo i fatti”.

Trattasi di un comportamento, precisano gli ermellini, del tutto confliggente con quello che avrebbe adottato il precettore medio ex art. 1176 c.c., il quale non avrebbe mai lasciato solo un apprendista oltretutto minorenne. Il precettore, quindi, non solo non ha fornito la prova liberatoria di cui all’art. 2048 c.c., ma è stata accerta in concreto la sua condotta non conforme al dovuto canone di diligenza.

Nel cassare la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Napoli, gli ermellini hanno quindi sancito il seguente principio di diritto “il precettore od il maestro d’arte, per liberarsi dalla presunzione di colpa posta a loro carico dall’art. 2048 c.c., hanno l’onere di provare che né loro, né alcun altro precettore diligente, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comm. 2, avrebbe potuto, nelle medesime circostanze, evitare il danno”.

Dott.ssa Caterina Marino