In quali casi l’Amministratore revocato ha diritto al risarcimento
Con la sentenza in commento la Suprema Corte è tornata ad affrontare il tema della revoca senza giusta causa dell’Amministratore.
Secondo l’art. 2383, terzo comma, cod. civ., l’assemblea può revocare gli amministratori “in qualunque tempo”, ossia durante tutta la durata del rapporto, indipendentemente dagli esercizi stabiliti in origine per la carica.
La facoltà di revocare a propria discrezione gli amministratori trova, però, un limite nel presupposto della “giusta causa”: non, però, nel senso che questa sia condizione di efficacia della deliberazione di revoca, la quale resta in ogni caso ferma e non caducabile (salvi eventuali vizi suoi propri), assumendo, invece, la giusta causa il più limitato ruolo di escludere in radice l’obbligo risarcitorio, altrimenti previsto a carico della società per il fatto stesso del recesso anticipato dal rapporto prima della sua scadenza naturale, come stabilita all’atto della nomina.
La “giusta causa” di revoca riguarda circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, provocate o no dall’amministratore stesso, che però pregiudicano l’affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità: in una parola, il rapporto fiduciario tra le parti (cfr., in tal senso, Cass. 23 marzo 2017, n. 7475; 15 ottobre 2013, n. 23381; 14 maggio 2012, n. 7425; 5 agosto 2005, n. 16526; 7 agosto 2004, n. 15322; 21 novembre 1998, n. 11801; 22 giugno 1985, n. 3768).
Il legame di fiducia con la società, e, per essa, con i soci fonda infatti il rapporto di amministrazione, donde la giusta causa è integrata da ogni fatto che sia idoneo a comprometterlo.
Quanto all’obbligo di esporre nella delibera di revoca i motivi che sorreggano la giusta causa, gli Ermellini ritengono sia preferibile la soluzione che imponga ai Soci di indicare espressamente nella deliberazione le ragioni della revoca e ciò per motivi attinenti alla celerità dell’agire societario, all’efficienza imprenditoriale, alla certezza delle situazioni giuridiche, alla deflazione del contenzioso, alla buona fede nei rapporti societari e al formalismo degli atti societari (Cass. 12 settembre 2008, n. 23557; v. pure, in tema di esclusione del socio da società personale, Cass. 16 giugno 1989, n. 2887).
Ciò comporta, secondo la Corte, la non ammissibilità in sede giudiziaria di ulteriori ragioni che non siano state enunciate esplicitamente e specificatamente a verbale.
Secondo questi termini la società convenuta in giudizio è tenuta,
in quanto attore in senso sostanziale, a provare la giusta causa di revoca, secondo i caratteri avanti indicati, mentre l’amministratore, in quanto convenuto in senso sostanziale, può limitarsi a negare la sussistenza del fatto costitutivo.
Quanto al profilo del danno, la Corte afferma che la revoca anticipata senza giusta causa dell’amministratore dalla carica può comportare oltre al ristoro per la perdita dei residui compensi (ma anche ciò va delimitato, dovendosi pur sempre applicare le regole di cui agli art. 1223-1227 cod. civ.), anche il risarcimento di ulteriori danni, quando: a) i fatti enunciati nella deliberazione integrino specifica violazione delle regole di buona fede e correttezza, ad esempio siano fatti rivelatisi diffamatori; oppure, in via concorrente, b) le concomitanti e concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius.
In tali casi, anche il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, con le eventuali ricadute patrimoniali) diviene risarcibile.
L’assenza di giusta causa di revoca non comporta – di per sé ed automaticamente – la risarcibilità, in particolare, del danno alla reputazione o prestigio professionale dell’amministratore revocato, e delle ulteriori conseguenze economiche, in termini di mancato guadagno, che se ne assumano derivate: a differenza della perdita del diritto al compenso per il periodo successivo alla revoca e sino alla prevista scadenza del mandato (il quale può desumersi in via presuntiva, salvo che circostanze concrete non lo escludano), il preteso pregiudizio per la lesione della reputazione e per i mancati guadagni da discredito reputazionale deve essere specificamente allegato e dimostrato come ulteriore conseguenza immediata e diretta della revoca (sebbene anche in via presuntiva), alla stregua soprattutto delle ragioni, esplicitate nella deliberazione ed eventualmente diffuse in un dato ambiente economico, poste a suo fondamento.
In conclusione, la Corte affermata il seguente principio di diritto: “In caso di revoca dell’amministratore di società azionaria, alla responsabilità contrattuale ex art. 2383 cod. civ. relativa al lucro cessante per i compensi residui non percepiti, derivante dal fatto stesso del recesso senza giusta causa dal rapporto di amministrazione, può aggiungersi la responsabilità, sempre di natura contrattuale, per la violazione delle regole di buona fede e correttezza, oppure una responsabilità extracontrattuale della società, o di soggetti in concorso con essa, solo in presenza di condotte che costituiscano un quid pluris, diverso ed ulteriore, rispetto alla revoca in sé, come allorché le stesse ragioni esternate della revoca, in luogo che essere semplicemente insussistenti o inidonee a fondare il potere di recesso, oppure le concrete modalità della cessazione del rapporto, connotate da colpa o dolo, siano tali da ledere un diritto della persona (come onore, reputazione, identità personale, con le eventuali conseguenti ricadute patrimoniali) distinto dal diritto dell’amministratore alla prosecuzione della carica sino alla sua naturale scadenza“.
Avv. Gavril Zaccaria
In quali casi l’Amministratore revocato ha diritto al risarcimento
Con la sentenza in commento la Suprema Corte è tornata ad affrontare il tema della revoca senza giusta causa dell’Amministratore.
Secondo l’art. 2383, terzo comma, cod. civ., l’assemblea può revocare gli amministratori “in qualunque tempo”, ossia durante tutta la durata del rapporto, indipendentemente dagli esercizi stabiliti in origine per la carica.
La facoltà di revocare a propria discrezione gli amministratori trova, però, un limite nel presupposto della “giusta causa”: non, però, nel senso che questa sia condizione di efficacia della deliberazione di revoca, la quale resta in ogni caso ferma e non caducabile (salvi eventuali vizi suoi propri), assumendo, invece, la giusta causa il più limitato ruolo di escludere in radice l’obbligo risarcitorio, altrimenti previsto a carico della società per il fatto stesso del recesso anticipato dal rapporto prima della sua scadenza naturale, come stabilita all’atto della nomina.
La “giusta causa” di revoca riguarda circostanze sopravvenute, anche non integranti inadempimento, provocate o no dall’amministratore stesso, che però pregiudicano l’affidamento dei soci nelle sue attitudini e capacità: in una parola, il rapporto fiduciario tra le parti (cfr., in tal senso, Cass. 23 marzo 2017, n. 7475; 15 ottobre 2013, n. 23381; 14 maggio 2012, n. 7425; 5 agosto 2005, n. 16526; 7 agosto 2004, n. 15322; 21 novembre 1998, n. 11801; 22 giugno 1985, n. 3768).
Il legame di fiducia con la società, e, per essa, con i soci fonda infatti il rapporto di amministrazione, donde la giusta causa è integrata da ogni fatto che sia idoneo a comprometterlo.
Quanto all’obbligo di esporre nella delibera di revoca i motivi che sorreggano la giusta causa, gli Ermellini ritengono sia preferibile la soluzione che imponga ai Soci di indicare espressamente nella deliberazione le ragioni della revoca e ciò per motivi attinenti alla celerità dell’agire societario, all’efficienza imprenditoriale, alla certezza delle situazioni giuridiche, alla deflazione del contenzioso, alla buona fede nei rapporti societari e al formalismo degli atti societari (Cass. 12 settembre 2008, n. 23557; v. pure, in tema di esclusione del socio da società personale, Cass. 16 giugno 1989, n. 2887).
Ciò comporta, secondo la Corte, la non ammissibilità in sede giudiziaria di ulteriori ragioni che non siano state enunciate esplicitamente e specificatamente a verbale.
Secondo questi termini la società convenuta in giudizio è tenuta,
in quanto attore in senso sostanziale, a provare la giusta causa di revoca, secondo i caratteri avanti indicati, mentre l’amministratore, in quanto convenuto in senso sostanziale, può limitarsi a negare la sussistenza del fatto costitutivo.
Quanto al profilo del danno, la Corte afferma che la revoca anticipata senza giusta causa dell’amministratore dalla carica può comportare oltre al ristoro per la perdita dei residui compensi (ma anche ciò va delimitato, dovendosi pur sempre applicare le regole di cui agli art. 1223-1227 cod. civ.), anche il risarcimento di ulteriori danni, quando: a) i fatti enunciati nella deliberazione integrino specifica violazione delle regole di buona fede e correttezza, ad esempio siano fatti rivelatisi diffamatori; oppure, in via concorrente, b) le concomitanti e concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius.
In tali casi, anche il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, con le eventuali ricadute patrimoniali) diviene risarcibile.
L’assenza di giusta causa di revoca non comporta – di per sé ed automaticamente – la risarcibilità, in particolare, del danno alla reputazione o prestigio professionale dell’amministratore revocato, e delle ulteriori conseguenze economiche, in termini di mancato guadagno, che se ne assumano derivate: a differenza della perdita del diritto al compenso per il periodo successivo alla revoca e sino alla prevista scadenza del mandato (il quale può desumersi in via presuntiva, salvo che circostanze concrete non lo escludano), il preteso pregiudizio per la lesione della reputazione e per i mancati guadagni da discredito reputazionale deve essere specificamente allegato e dimostrato come ulteriore conseguenza immediata e diretta della revoca (sebbene anche in via presuntiva), alla stregua soprattutto delle ragioni, esplicitate nella deliberazione ed eventualmente diffuse in un dato ambiente economico, poste a suo fondamento.
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