Avvocato intima al Giudice di abbandonare l’aula, è oltraggio

Con sentenza n. 20515 depositata il 17 maggio 2016, la Suprema Corte si è pronunciata in materia di delitti dei privati contro la Pubblica Amministrazione.

Il fatto riguardava la contestazione di talune affermazioni rese in udienza da un avvocato – poi ricorrente in Cassazione – sia nei confronti del P.m. che del Presidente del Collegio giudicante. Il ricorrente, infatti, alludendo a problemi personali tra i due magistrati, non meglio esplicitati, passibili di costituire motivo di ricusazione, aveva esortato il Presidente ad abbandonare il dibattimento, in quanto non in grado di imporre al P.m. di rispettare il codice.

La sentenza di appello impugnata aveva già riformato la sentenza di primo grado, escludendo il reato nei confronti del P.m. perché il fatto non sussiste, ma, comunque, condannando l’avvocato per il reato commesso nei confronti del Presidente del Collegio.

Al riguardo, in riferimento al primo motivo del ricorso – sulla contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata – la Corte di Cassazione sez. VI Penale ha precisato che: “L’esortazione ad un corretto esercizio della professione si risolve in un’offesa alla capacità del giudicante e l’allusione a problemi di indeterminata ed imprecisata natura del giudice nei confronti del P.m. risulta gravemente insinuante ed idonea a generare dubbi sull’imparzialità del giudice, accusato, dapprima di debolezza, poi di compiacente indulgenza”.

Inoltre, con riferimento al secondo motivo del ricorso – sulla mancanza di motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato – la Corte ha invece precisato che “il dolo è integrato dalla consapevolezza dell’offensività delle espressioni utilizzate, resa evidente sia dal tenore oggettivo che dalla ripetitività incalzante delle stesse nonché dalla condotta complessiva del ricorrente (…)”.

Per questi motivi, la Suprema Corte ha respinto il ricorso in quanto infondato.

Dott. Alessandro Rucci