
Cede alle avances del marito per “sfinimento”: per gli Ermellini è violenza sessuale
“La violenza idonea ad integrare il delitto di violenza sessuale è anche quella che induce la vittima in uno stato di soggezione, disagio o vergogna sì che ella si determina ad “assecondare” le richieste del proprio abusatore per evitare danni maggiori, a se stessa o ai figli”
E’ quanto statuito dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. III Penale, con sentenza n. 42993/2015.
Nel caso che qui ci occupa la Corte d’Appello adita aveva ritenuto colpevole, e conseguentemente condannato l’imputato in ordine alla violazione dell’art. 609-bis c.p. (violenza sessuale), così confermando la statuizione espressa dal Giudice di prime cure.
L’imputato era stato ritenuto colpevole del reato anzi detto poiché, nel fare uso di maltrattamenti e prevaricazioni violente e gratuite, aveva indotto la moglie ad assecondare e subire le proprie iniziative sessuali. La donna, al fine di evitare un maggiore danno a se stessa e ai figli, “sfinita” dalle insistenti pressioni del marito, era stata costretta a cedere, nonostante per lungo tempo avesse tentato di rifiutare un qualsiasi approccio di natura sessuale nei riguardi dell’accanito molestatore.
In ragione di ciò il ricorrente, mediante la strategia difensiva a tal uopo predisposta, lamentava un vizio di motivazione scaturente dall’osservazione secondo cui ragionando in tal modo si finirebbe per valorizzare la soggettiva elaborazione interiore della vittima a discapito di quanto ritenuto dall’interlocutore, il quale avrebbe potuto, in realtà, trarre dagli atteggiamenti della moglie, il convincimento che la stessa fosse consenziente al rapporto sessuale.
Alla fine di un percorso interpretativo non privo di risvolti etici, i Giudici di legittimità hanno ritenuto privi di fondamento i motivi di doglianza del soggetto attivo del reato, dichiarando l’inammissibilità del ricorso in questione sulla base del convincimento che la minaccia e la violenza vadano valutate in ragione delle concrete circostanze verificatesi e non sulla base di meri criteri astratti; di tal guisa che esse possano venire ravvisate anche nell’intimidazione psicologica cui possa seguire un condizionamento della libertà di autodeterminazione della vittima.
A nulla valendo richieste riguardanti l’applicazione della scriminante putativa ex art. 50 c.p. in ordine al consenso della vittima, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia pertanto in un errore inescusabile sulla legge penale. (Nel caso di specie, non ha valore scriminante il fatto che la moglie non si opponga palesemente ai rapporti sessuali con il marito e li subisca, quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti poste ripetutamente in essere nei confronti della propria vittima, abbia la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali).

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L’imputato era stato ritenuto colpevole del reato anzi detto poiché, nel fare uso di maltrattamenti e prevaricazioni violente e gratuite, aveva indotto la moglie ad assecondare e subire le proprie iniziative sessuali. La donna, al fine di evitare un maggiore danno a se stessa e ai figli, “sfinita” dalle insistenti pressioni del marito, era stata costretta a cedere, nonostante per lungo tempo avesse tentato di rifiutare un qualsiasi approccio di natura sessuale nei riguardi dell’accanito molestatore.
In ragione di ciò il ricorrente, mediante la strategia difensiva a tal uopo predisposta, lamentava un vizio di motivazione scaturente dall’osservazione secondo cui ragionando in tal modo si finirebbe per valorizzare la soggettiva elaborazione interiore della vittima a discapito di quanto ritenuto dall’interlocutore, il quale avrebbe potuto, in realtà, trarre dagli atteggiamenti della moglie, il convincimento che la stessa fosse consenziente al rapporto sessuale.
Alla fine di un percorso interpretativo non privo di risvolti etici, i Giudici di legittimità hanno ritenuto privi di fondamento i motivi di doglianza del soggetto attivo del reato, dichiarando l’inammissibilità del ricorso in questione sulla base del convincimento che la minaccia e la violenza vadano valutate in ragione delle concrete circostanze verificatesi e non sulla base di meri criteri astratti; di tal guisa che esse possano venire ravvisate anche nell’intimidazione psicologica cui possa seguire un condizionamento della libertà di autodeterminazione della vittima.
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