Risarcimento del danno: il “fermo tecnico” dev’essere provato

Con la sentenza n. 13718/2017, depositata il 31 maggio 2017, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in merito alla configurabilità del c.d. danno da “fermo tecnico”.

Nel caso di specie il ricorrente proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza, emessa dal Tribunale nella veste di Giudice di appello, che rigettava la domanda risarcitoria volta ad accertare la sussistenza del danno da “sosta tecnica” derivante della mancata disponibilità del veicolo, e sino alla sua completa riparazione, a seguito di un sinistro stradale.

Il presunto leso, difatti, non aveva dato idonea prova della sussistenza di un danno risarcibile in concreto e non poteva, pertanto, ritenersi esistente tale voce di danno, in re ipsa, per il solo fatto che il veicolo non aveva circolato perché in riparazione.

La Suprema Corte, nella parte motiva della sentenza, rileva come, secondo un orientamento più risalente ed ormai minoritario, il danno in parola veniva considerato liquidabile in via equitativa ed indipendentemente da una prova specifica in ordine al pregiudizio subito, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato.

Una siffatta interpretazione, tuttavia, attribuisce rilievo alla nozione di danno in re ipsa estranea al nostro ordinamento, e fornisce un’applicazione distorta dell’art. 1226 c.c., il quale prevede la liquidazione equitativa del danno nel caso in cui sia obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, dimostrare nel suo preciso ammontare il danno di cui è peraltro provata con certezza la sussistenza.

In conformità alle argomentazioni sopra esposte la Suprema Corte ribadiva pertanto il principio di diritto secondo il quale: “il danno derivante dall’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per la riparazione, deve essere allegato e dimostrato da colui che ne invoca il risarcimento, il quale deve provare la perdita subita dal suo patrimonio in conseguenza della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (danno emergente) oppure il mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che avrebbe conseguito con l’uso del veicolo (lucro cessante).”

Per questi motivi la Corte di Cassazione rigettava il ricorso e condannava il ricorrente al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del dell’art. 13, comma 1- bis e quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012.

Dott. Giordano Mele