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Published On: 10 Luglio 2025Categories: Diritto civile, Diritto Costituzionale, Giulia Riga, Sentenze Cassazione

Diritto all’oblio e diritto di cronaca: il bilanciamento tra memoria e dignità

In un’epoca in cui ogni informazione diffusa sul web sembra destinata a restare per sempre, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14488/2025, affronta una questione tanto attuale quanto delicata: il rapporto tra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca.

Benché la memoria del web non conosca dimenticanza, la giustizia ha il compito di fissarne i confini, di stabilire quando il diritto a sapere debba cedere il passo al diritto, altrettanto fondamentale, a non essere eternamente definiti da un passato che non ci rappresenta più.

Il caso sottoposto al vaglio della Corte riguarda un cittadino assolto in via definitiva nel 2015 da un’accusa di associazione mafiosa. Nonostante l’assoluzione, continuava a essere raggiunto online da contenuti giornalistici che riferivano della sua iniziale implicazione nella vicenda penale, senza alcun aggiornamento circa l’esito favorevole del processo.

Tali articoli, facilmente accessibili attraverso i motori di ricerca digitando nome e cognome, risultavano dunque potenzialmente lesivi della reputazione del soggetto, cristallizzando un’immagine superata e incompleta della sua storia giudiziaria.

Il Tribunale di merito aveva respinto la richiesta di deindicizzazione dei link, ritenendo prevalente l’interesse pubblico all’informazione. La Cassazione, invece, ha ribaltato questa impostazione, affermando con chiarezza che, in assenza di attualità della notizia e in mancanza di aggiornamenti sull’assoluzione, deve riconoscersi all’individuo il diritto a non essere più associato in modo automatico a una vicenda ormai conclusa.

La Corte ha dunque ribadito che il diritto all’oblio, fondato sull’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679 e sull’art. 2 della Costituzione, può prevalere sulla libertà di informazione sancita dall’art. 21 Cost., laddove la diffusione della notizia non sia più giustificata da un interesse pubblico attuale e concreto. Non si tratta di cancellare la storia, né di comprimere la libertà di stampa, ma di riconoscere che il tempo giuridico e il tempo digitale non coincidono, e che la dignità della persona non può essere sacrificata sull’altare dell’indicizzazione algoritmica.

La Suprema Corte ha individuato una serie di criteri per orientare il necessario bilanciamento: la mera veridicità della notizia non è sufficiente ma occorre verificarne l’attualità; la forma dell’esposizione deve rispettare i canoni della continenza e completezza; il tempo trascorso dai fatti è elemento decisivo; il ruolo pubblico del soggetto incide sull’ampiezza della tutela; e, soprattutto, l’omessa menzione dell’esito favorevole costituisce una grave lesione della corretta informazione.

In applicazione di tali principi, la Cassazione ha affermato che il motore di ricerca deve procedere alla deindicizzazione dei contenuti oggetto di contestazione rispetto alle ricerche svolte sul nome dell’interessato. Gli articoli, dunque, possono rimanere disponibili nell’archivio del giornale, ma non essere più facilmente reperibili attraverso query nominative.

Inoltre, la Corte ha richiamato l’obbligo, per l’editore, di integrare i contenuti con una nota informativa aggiornata, che dia conto dell’assoluzione definitiva, restituendo all’utente un quadro completo e veritiero.

Tale orientamento si inserisce perfettamente nel solco tracciato dalla giurisprudenza europea, in particolare dalla celebre sentenzaGoogle Spain” (C-131/12), che ha riconosciuto il diritto dell’interessato a ottenere la rimozione di risultati non più pertinenti, e trova continuità anche nelle pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 19681/2019), che hanno delineato i confini applicativi del diritto all’oblio nel contesto nazionale.

La sentenza in commento rafforza inoltre l’idea di una responsabilità editoriale che non si esaurisce nel momento della pubblicazione della notizia, ma perdura nel tempo e si estende alla cura dell’archivio digitale. Non basta dunque conservare, occorre contestualizzare.

Un contenuto informativo, per dirsi lecito, deve evolversi con la verità processuale.

In termini pratici, la pronuncia della Cassazione offre agli operatori del diritto uno strumento utile per tutelare la reputazione di chi si trovi ingiustamente esposto in rete. L’interessato può rivolgersi al titolare del trattamento chiedendo la deindicizzazione ai sensi dell’art. 17 GDPR e, in caso di diniego, adire l’autorità giudiziaria o proporre reclamo al Garante per la protezione dei dati personali.

La documentazione dell’assoluzione, la dimostrazione del danno subito e la prova della perdurante visibilità della notizia sono elementi essenziali per costruire una domanda efficace.

La decisione della Corte del 2025 è destinata ad avere un impatto significativo non solo sul piano giuridico, ma anche su quello culturale, in quanto invita a ripensare il modo in cui trattiamo la memoria e la reputazione nel contesto digitale. La verità giudiziaria ha bisogno di essere rispettata anche nella sua fase finale, e ciò significa garantire che l’immagine di una persona non rimanga cristallizzata in un passato superato. La sentenza n. 14488/2025 non è, dunque, una limitazione alla libertà di stampa, ma un atto di civiltà giuridica, che riafferma la centralità della persona rispetto alle dinamiche impersonali dell’informazione automatizzata.

Il diritto all’oblio non è il diritto a cancellare la storia, ma di essere raccontati per quello che si è davvero.

 

Dott.ssa Giulia Riga

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In un’epoca in cui ogni informazione diffusa sul web sembra destinata a restare per sempre, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 14488/2025, affronta una questione tanto attuale quanto delicata: il rapporto tra il diritto all’oblio e il diritto di cronaca.

Benché la memoria del web non conosca dimenticanza, la giustizia ha il compito di fissarne i confini, di stabilire quando il diritto a sapere debba cedere il passo al diritto, altrettanto fondamentale, a non essere eternamente definiti da un passato che non ci rappresenta più.

Il caso sottoposto al vaglio della Corte riguarda un cittadino assolto in via definitiva nel 2015 da un’accusa di associazione mafiosa. Nonostante l’assoluzione, continuava a essere raggiunto online da contenuti giornalistici che riferivano della sua iniziale implicazione nella vicenda penale, senza alcun aggiornamento circa l’esito favorevole del processo.

Tali articoli, facilmente accessibili attraverso i motori di ricerca digitando nome e cognome, risultavano dunque potenzialmente lesivi della reputazione del soggetto, cristallizzando un’immagine superata e incompleta della sua storia giudiziaria.

Il Tribunale di merito aveva respinto la richiesta di deindicizzazione dei link, ritenendo prevalente l’interesse pubblico all’informazione. La Cassazione, invece, ha ribaltato questa impostazione, affermando con chiarezza che, in assenza di attualità della notizia e in mancanza di aggiornamenti sull’assoluzione, deve riconoscersi all’individuo il diritto a non essere più associato in modo automatico a una vicenda ormai conclusa.

La Corte ha dunque ribadito che il diritto all’oblio, fondato sull’art. 17 del Regolamento (UE) 2016/679 e sull’art. 2 della Costituzione, può prevalere sulla libertà di informazione sancita dall’art. 21 Cost., laddove la diffusione della notizia non sia più giustificata da un interesse pubblico attuale e concreto. Non si tratta di cancellare la storia, né di comprimere la libertà di stampa, ma di riconoscere che il tempo giuridico e il tempo digitale non coincidono, e che la dignità della persona non può essere sacrificata sull’altare dell’indicizzazione algoritmica.

La Suprema Corte ha individuato una serie di criteri per orientare il necessario bilanciamento: la mera veridicità della notizia non è sufficiente ma occorre verificarne l’attualità; la forma dell’esposizione deve rispettare i canoni della continenza e completezza; il tempo trascorso dai fatti è elemento decisivo; il ruolo pubblico del soggetto incide sull’ampiezza della tutela; e, soprattutto, l’omessa menzione dell’esito favorevole costituisce una grave lesione della corretta informazione.

In applicazione di tali principi, la Cassazione ha affermato che il motore di ricerca deve procedere alla deindicizzazione dei contenuti oggetto di contestazione rispetto alle ricerche svolte sul nome dell’interessato. Gli articoli, dunque, possono rimanere disponibili nell’archivio del giornale, ma non essere più facilmente reperibili attraverso query nominative.

Inoltre, la Corte ha richiamato l’obbligo, per l’editore, di integrare i contenuti con una nota informativa aggiornata, che dia conto dell’assoluzione definitiva, restituendo all’utente un quadro completo e veritiero.

Tale orientamento si inserisce perfettamente nel solco tracciato dalla giurisprudenza europea, in particolare dalla celebre sentenzaGoogle Spain” (C-131/12), che ha riconosciuto il diritto dell’interessato a ottenere la rimozione di risultati non più pertinenti, e trova continuità anche nelle pronunce delle Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 19681/2019), che hanno delineato i confini applicativi del diritto all’oblio nel contesto nazionale.

La sentenza in commento rafforza inoltre l’idea di una responsabilità editoriale che non si esaurisce nel momento della pubblicazione della notizia, ma perdura nel tempo e si estende alla cura dell’archivio digitale. Non basta dunque conservare, occorre contestualizzare.

Un contenuto informativo, per dirsi lecito, deve evolversi con la verità processuale.

In termini pratici, la pronuncia della Cassazione offre agli operatori del diritto uno strumento utile per tutelare la reputazione di chi si trovi ingiustamente esposto in rete. L’interessato può rivolgersi al titolare del trattamento chiedendo la deindicizzazione ai sensi dell’art. 17 GDPR e, in caso di diniego, adire l’autorità giudiziaria o proporre reclamo al Garante per la protezione dei dati personali.

La documentazione dell’assoluzione, la dimostrazione del danno subito e la prova della perdurante visibilità della notizia sono elementi essenziali per costruire una domanda efficace.

La decisione della Corte del 2025 è destinata ad avere un impatto significativo non solo sul piano giuridico, ma anche su quello culturale, in quanto invita a ripensare il modo in cui trattiamo la memoria e la reputazione nel contesto digitale. La verità giudiziaria ha bisogno di essere rispettata anche nella sua fase finale, e ciò significa garantire che l’immagine di una persona non rimanga cristallizzata in un passato superato. La sentenza n. 14488/2025 non è, dunque, una limitazione alla libertà di stampa, ma un atto di civiltà giuridica, che riafferma la centralità della persona rispetto alle dinamiche impersonali dell’informazione automatizzata.

Il diritto all’oblio non è il diritto a cancellare la storia, ma di essere raccontati per quello che si è davvero.

 

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