Prestazioni stragiudiziali: ecco quando l’avvocato ha diritto al compenso

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 693 del 9 gennaio 2024, chiarisce alcuni importanti criteri di valutazione per determinare i compensi degli avvocati in merito a prestazioni stragiudiziali e alle relative attività, che diventano legittime solo se risultano essere conformi al principio di omnicomprensività.

La vicenda esaminata dalla Corte coinvolge un individuo che presenta ricorso al Tribunale di Pavia agendo sia in proprio che come esercente la potestà genitoriale di sua figlia minore, con il fine di vedersi tutelare entrambi gli interessi, di se stesso e di sua figlia, in merito a delle partecipazioni in due diverse società.

Il ricorrente chiedeva la condanna al pagamento di una somma pari a 28.314,70 euro, risultante già al netto degli acconti ricevuti, e il Tribunale accogliendo il ricorso condannava le parti convenute al pagamento di 18,697,09 euro.

La parte chiamata in causa presentava appello nella sua duplice veste, e la Corte distrettuale, accogliendo l’impugnazione, rilevava a tal fine come le bozze degli atti predisposti dall’appellato non potessero essere qualificati come contratti, in quanto nessun accordo era stato raggiunto tra le parti, ma piuttosto che potessero essere assimilati ad attività meramente preparatorie e dando, per questo, una qualificazione in termini di pareri scritti.

Pertanto, come conseguenza, non venivano riconosciuti nel relativo compenso dei contratti e di fatto esclusi da quei compensi previsti in riferimento alla lettera F della Tabella D allegata al D.M. 127/2004, per ricondurli, invece, alla lettera B sub b in quanto qualificabili come “pareri scritti”, così da quantificare le residue spettanze dell’appellato per una somma pari 9.275,50 euro.

Il protagonista della vicenda ricorreva in Cassazione contestando la decisione impugnata nella parte in cui gli atti predisposti da se stesso venivano qualificati come pareri scritti piuttosto che come contratti e liquidando, per questo, il compenso relativo sulla base degli stessi; il ricorrente evidenziava come tale qualificazione facesse erroneamente far dipendere la conclusione definitiva dei contratti ai fini del riconoscimento del compenso.

La Cassazione accoglie la censura del ricorrente affermando come la “redazione dei contratti” prevista dal punto f) della tabella D del d.mm. n. 127 cit. debba essere ravvisata ogni volta in cui la prestazione dell’avvocato si concretizzi nella traduzione in termini tecnico giuridici delle pattuizione tra le parti che vadano a comprendere, su incarico del cliente, sia la predisposizione del testo del rispettivo regolamento negoziale sia l’assistenza per la sua redazione ad opera di altri soggetti.

Nel caso in cui, per vari motivi, il contratto non venga formalizzato tra le parti sul piano giuridico, l’attività professionale offerta deve essere comunque oggetto della relativa compensazione, in virtù dell’art. 6 del capitolo III del d.m.  n.127 cit., nel quale viene espressamente previsto che le pratiche, “iniziate” dal legale rappresentante ma non “giunte a compimento”, come nel caso  del “contratto” non sottoscritto dai potenziali contraenti ma predisposto comunque dal legale rappresentante, debbano essere allo stesso retribuite.

Occorrerà, a tal fine, avere esclusivo riguardo ai criteri dettati dall’art. 1 comma 2 del capitolo III del d.m. n. 127 cit., che sono conciliabili con il mancato espletamento di certe prestazioni previste dal contratto d’opera professionale, vale a dire, con la mancata realizzazione dell’incarico conferito, tenendo in ogni caso in considerazione il valore e la natura della pratica, come anche l’importanza delle questioni trattate e la qualità dell’opera prestata.

Inoltre, la Corte ha contestato anche la qualificazione in riferimento all’attività espletata in termini di parere scritto considerandola appunto come inappropriata per la differenza che risulta tra questa e l’attività che effettivamente è stata svolta da ricorrente.

Dott.ssa Serenella Angelini