Legge Pinto: il diritto al risarcimento per irragionevole durata del processo

febbraio 22nd, 2021|Diritto civile, mauro giallombardo|

Con la legge n. 89/2001 rubricata “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile”, c.d. Legge Pinto, il legislatore ha dotato l’ordinamento di un procedimento attraverso il quale richiedere il risarcimento dei danni causati da una durata irragionevole del processo.

L’intervento legislativo risponde all’esigenza di tutelare il diritto di ciascuno a vedere la sua causa esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole, corollario del principio del “giusto processo”, appositamente sancito dall’art. 111 della Costituzione e dall’art. 6 della CEDU.

Avvalersi della legge Pinto permette di richiedere il risarcimento dei danni siano essi patrimoniali e non patrimoniali come il danno morale, biologico ed esistenziale, causati dall’eccessivo protrarsi del processo.

Con riferimento ai primi è possibile richiedere il compenso per le perdite effettivamente subite (c.d. danno emergente) ed il mancato guadagno che invece si sarebbe prodotto in assenza dell’inadempimento (lucro cessante).

Ai fini di possedere dei criteri oggettivi per la valutazione della durata del processo è stato stabilito dall’art. 2, co. 2-bis della l. 89/2001 che la ragionevolezza del protrarsi del processo è data dalla durata:

  • pari ad anni 3 per i procedimenti di primo grado;
  • pari ad anni 2 per quelli di secondo grado;
  • 1 anno per il giudizio di legittimità;
  • 3 anni per i procedimenti di esecuzione forzata (calcolati separatamente rispetto al procedimento di cognizione);
  • 6 anni per le procedure concorsuali;

infine, la definizione del giudizio in maniera irrevocabile in un arco temporale pari ad anni 6 rispetta il termine ragionevole.

L’applicazione del provvedimento è prevista per le controversie in materia civile, nei procedimenti penali, amministrativi, fallimentari e tributari; è esclusa invece per i procedimenti per il cui svolgimento è adito un organo di giustizia privata.

Secondo quanto stabilito dagli articoli 28 c.p.c. e dall’art. 3, comma 1, L. 89/2001 la competenza a decidere sui ricorsi straordinari per equa riparazione appartiene inderogabilmente al Presidente della Corte d’Appello nel cui distretto ha trovato luogo il primo grado del processo per cui è proposto il ricorso in oggetto.

Il ricorso davanti al Presidente della Corte d’Appello secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale (Corte cost. 26/04/2018, n. 88) può essere presentato anche in pendenza di procedimento e da avvio ad un giudizio di natura monitoria secondo quanto stabilito dalla riforma del 2015.

Ai fini della presentabilità dell’atto e della concessione del provvedimento inaudita altera parte, è necessario indicare:

  • il Giudice cui è indirizzato il ricorso;
  • le parti interessate;
  • le prove acquisite;
  • l’oggetto e i motivi della domanda;
  • le conclusioni e la procura alle liti sottoscritta dal difensore.

Altresì devono essere depositate copie autentiche relative al procedimento per il quale si richiede equo risarcimento. dalle quali sia evincibile l’irragionevole protrarsi di questo.

Depositato il ricorso, munito degli atti sopra indicati, il Presidente della Corte d’Appello o un magistrato da quest’ultimo delegato si pronuncerà sulla domanda proposta nel termine ordinario di giorni trenta.

Il Giudice provvede quindi, in caso di accoglimento, con decreto motivato provvisoriamente esecutivo ingiungendo al Ministero convenuto di risarcire la persona offesa senza dilazione, liquidando inoltre le spese del procedimento.

In caso di accoglimento l’Amministrazione è tenuta ad effettuare il pagamento entro 6 mesi dalla data in cui il ricorrente abbia adempiuto alla trasmissione inerente la dichiarazione per il pagamento di cui all’art. 5-sexies, L. 89/2001; nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione l’ordine di pagamento non sarà emesso.

Il risarcimento liquidato dal giudice per ogni anno in cui si è ecceduta la durata ragionevole del processo è pari ad un importo che varia tra un minimo di quattrocento euro ed un massimo di ottocento euro. È prevedibile, in determinati casi, la scelta di un importo maggiore o minore purché la cifra ultima non sia superiore al valore della causa stessa.

Avverso la decisione della Corte d’Appello è possibile esperire opposizione davanti la stessa Corte entro trenta giorni dalla comunicazione del provvedimento che si vuole impugnare.

Il ricorso, generalmente, non sospende l’esecuzione del provvedimento.

La Corte decide sul ricorso con decreto, entro quattro mesi dal deposito dell’atto di impugnazione. Il decreto è dotato di immediata esecutività ed è impugnabile per Cassazione.

A tutela del soggetto ricorrente, qualora siano trascorsi sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento che riconosce il credito ed il Ministero non abbia provveduto ad effettuare il pagamento, vi è la facoltà, secondo quanto stabilito dall’art. 5-quinquies, L. 89/2001 di esperire l’esecuzione forzata sui beni aggredibili, nei limiti indicati sempre dallo stesso articolo 5-quinquies, L. 89/2001, con atto notificato ai Ministeri individuati come legittimati passivi.

Gli atti di pignoramento o di sequestro devono indicare il provvedimento giurisdizionale posto in esecuzione, a pena di nullità rilevabile d’ufficio, e devono essere notificati al Ministro o al funzionario delegato del distretto in cui è stato emesso il decreto da eseguire.

A tutela del ricorrente è possibile proporre azione di ottemperanza, appositamente prevista dal comma 8 dell’art. 5-sexies, l. 89/01.

Il giudizio di ottemperanza infatti “deve considerarsi sul piano funzionale e strutturale pienamente equiparabile al procedimento esecutivo, dovendosi considerare unitariamente rispetto al giudizio che ha riconosciuto il diritto all’indennizzo” (Cass. civ., Sezioni Unite, sentenza n. 19883/2019).

Invero, l’ottemperanza, che opera come strumento di coazione indiretta, consente al giudice amministrativo di dare esecuzione al decreto decisorio della Corte d’Appello condannando il Ministero al pagamento di quanto dovuto, alle spese del presente giudizio oltre agli accessori di legge.

Nella fattispecie secondo quanto indicato dall’art. 5-sexies, co. 8, L. Pinto, il giudice amministrativo qualora occorresse potrebbe nominare come commissario ad acta un dirigente dell’amministrazione soccombente con i limiti previsti dallo stesso comma, con il compito di erogare i crediti riconosciuti al soggetto agente.