Il caso della comunità nigeriana di Ikebiri contro la multinazionale ENI

ottobre 20th, 2018|Articoli, Luca Saltalamacchia, News|

Accade spesso che le imprese di grandi dimensioni, nello svolgimento delle loro attività commerciali, violano i diritti umani, soprattutto quando si verificano disastri ambientali. Il tema del rapporto tra imprese e diritti umani è molto attuale, tant’è che l’ONU (“Principi Guida dell’ONU per le imprese e i diritti umani” pubblicati il 7 aprile 2008), l’OCSE (“Linee Guida dell’OCSE destinate alle imprese multinazionali” approvate in seno alla Dichiarazione OCSE del 27 giugno 2000) e l’Unione europea (Comunicazione sulla “Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di responsabilità sociale delle imprese” COM (2011) 681, dell’ottobre 2011) da diversi anni stanno approvando raccomandazioni e direttive sul tema.

Questo tema riguarda anche le multinazionali italiane, che spesso hanno provocato devastanti conseguenze in termini di inquinamento e violazione dei diritti umani nei paesi dove operano.

Questo fenomeno viene tendenzialmente oscurato dalla pubblica informazione, probabilmente anche perché non esiste una opinione pubblica sensibilizzata a tale tema.

In altri Stati, da diversi decenni vengono celebrati giudizi dinanzi ai Tribunali nazionali dove le imprese hanno la propria sede principale per gravi fatti commessi da costoro all’estero.

In Italia, soltanto nel 2017 è iniziato il primo giudizio civile di questo tipo, proposto dalla comunità di Ikebiri contro l’ENI e la sua controllata nigeriana.

La comunità di Ikrbiri è stanziata in Nigeria, in uno dei tanti rami del gigantesco delta del fiume Niger, nello Stato di Bayelsa. E’ una comunità indigena; i suoi membri traggono dall’ambiente che li circonda la maggior parte del proprio sostentamento.

Nei suoi territori opera la filiale nigeriana di Eni (Nigerian Agip Oil Company), la cui attività ha provocato gravi danni a causa di molti sversamenti di petrolio verificatisi a partire dagli anni ‘70.

Nell’aprile 2010 si è verificato una ulteriore fuoriuscita, per la quale la NAOC ha sempre dichiarato di voler risarcire la comunità.

Tuttavia, dopo anni di trattative, in considerazione dello stato ancora inquinato del territorio e del mancato risarcimento, la comunità ha deciso di introdurre in Italia un giudizio civile contro ENI e NAOC. Tale giudizio ha ad oggetto la condanna al pagamento di una cifra di denaro a titolo di risarcimento danni, nonché la bonifica dei suoli o in alternativa il pagamento della somma necessaria per bonificare i suoli.

Mentre le domande contro la NAOC sono fondate sull’assunzione di responsabilità proveniente dalla compagnia, quelle contro Eni sono basate sull’obbligo di vigilanza (cd., duty of care secondo la dottrina anglosassone) che grava su costei, anche in virtù degli strumenti di due diligence di cui si è dotata.

Il giudizio pende dinanzi al Tribunale di Milano. La prossima udienza sarà celebrata il 23/10/18.

Essendo il primo di questo tipo, le questioni processuali e sostanziali da affrontare – e che mai prima d’ora sono state affrontate in Italia – sono numerose ed assai complesse.

Quando – come nel caso di specie – il danno è provocato ad una intera comunità, chi è il soggetto legittimato ad agire? Il concetto giuridico di comunità (nel caso di specie, comunità indigena) è estraneo al nostro ordinamento.

Secondo il diritto nigeriano, le comunità sono titolari di diritti e possono attraverso i suoi rappresentanti agire in giudizio per reclamare i propri diritti quando viene inquinata una porzione di terreno comunitario. Tuttavia, il diritto nigeriano rimanda alle consuetudini ancestrali le regole che disciplinano la rappresentatività della comunità e l’individuazione dei suoi leader, il che rende difficoltoso comprendere quale sia il soggetto indicato a spendere il nome della comunità.

Un’altra questione è la giurisdizione del giudice italiano in merito alle domande proposte contro la società controllata, che è una società di diritto nigeriano. Certamente, allo stato, è possibile, applicando la normativa vigente, riconoscere tale giurisdizione facendo appello al principio della economia processuale relativamente a cause connesse, ma indubbiamente l’esistenza di una norma ad hoc (che manca) renderebbe più chiara tale possibilità.

Ulteriore questione, mai affrontata prima nel nostro ordinamento, riguarda l’accertamento della responsabilità della controllante per fatti imputabili alla controllata che incidano sui diritti umani fondamentali. Esistono diversi precedenti in tal senso di Corti nazionali ed Europee, ma sono relativi a settori dell’ordinamento completamente diversi.

In conclusione, possiamo dire che con l’introduzione del giudizio proposto dalla comunità di Ikebiri anche nel nostro ordinamento si è aperta una strada, finora mai percorsa, piena di difficoltà, ma che finalmente lascia intravvedere la possibilità che anche le imprese italiane siano chiamate a rispondere del loro operato all’estero, facendo venir meno la sostanziale impunità che sinora ha regnato sovrana.

Avv. Luca Saltalamacchia