Contratto di locazione nullo: i canoni versati non vanno restituiti

Nell’ipotesi in cui il Giudice dichiari nullo un contratto di locazione, il conduttore non può pretendere la restituzione dei canoni già versati quale corrispettivo del godimento dell’immobile, poiché ciò costituirebbe un arricchimento senza giusta causa ex art. 2041 c.c. a danno del locatore.

La Terza Sezione Civile della Cassazione, con sentenza n. 3971 del 12.2.2019, ha confermato la legittimità dei canoni di locazione versati nel corso del rapporto locatizio, nonostante il contratto da cui traeva origine tale rapporto sia stato successivamente dichiarato nullo all’esito di un giudizio.

Il ricorso innanzi la Suprema Corte è avviato a seguito della conferma, da parte della Corte d’Appello di Milano, della sentenza n. 1830/2016, emessa all’esito del giudizio di primo grado, con la quale il Tribunale, non solo aveva dichiarato risolto per inadempimento il contratto di locazione inter partes, ma anche rigettato la domanda riconvenzionale di nullità del contratto e di restituzione dei canoni pagati.

Gli Ermellini, condividendo l’interpretazione dei Giudici dei gradi precedenti, e confermando lo ius receptum in materia, hanno affermato che qualora un contratto di locazione sia dichiarato nullo, pur conseguendo in linea di principio a detta dichiarazione il diritto per ciascuna delle parti di ripetere la prestazione effettuata, tuttavia non si può pretendere che venga restituito alla parte che abbia usufruito del godimento dell’immobile quanto versato a titolo di corrispettivo per tale godimento, in quanto ciò importerebbe un inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore.

Più precisamente, la Suprema Corte in via preliminare stabilisce che l’azione di nullità non poteva comunque trovare accoglimento «in ragione della già avvenuta esecuzione delle contrapposte e reciproche prestazioni delle parti»; ma anche ove fosse stata accolta la domanda di nullità, derivante dalla comprovata violazione da parte della locatrice degli obblighi previsti dall’art. 1575 c.c., « la conduttrice avrebbe potuto chiedere la risoluzione del contratto ovvero avrebbe potuto chiedere la diminuzione del canone pattuito (ma giammai avrebbe potuto chiedere la restituzione dei canoni già versati, come invece aveva fatto, così modificando la causa petendi)».

Gli Ermellini hanno quindi dichiarato inammissibile il ricorso, compensando le spese processuali relative al giudizio di legittimità.