Il focus: il diritto al risarcimento per macroinvalidazione del convivente nella Legge Cirinnà

Dall’entrata in vigore del codice civile nel 1942, il diritto di famiglia è andato incontro ad un’evoluzione lenta ma inesorabile.

Appena sei anni dopo, con la Costituzione del 1948, gli operatori del diritto si sono resi immediatamente conto di come quella realtà fotografata nelle norme codicistiche, imperniata sul ruolo di pater familias del marito, fosse ormai ben differente dalla realtà del contesto sociale.

Il mutamento del costume, l’industrializzazione, il venire meno della famiglia parentale a favore di quella nucleare sono tutti fenomeni con cui in primis si è dovuto confrontare l’interprete, adeguando le norme del codice civile alla mutata realtà.

Successivamente, con l’avviarsi degli interventi legislativi nel settore del diritto di famiglia, che vedono due momenti fondamentali nell’introduzione del divorzio e nella riforma del 1975, alla potestà maritale ed al ruolo ancillare della donna si sostituisce la regola dell’accordo nell’organizzazione del ménage familiare.

Si è trattato di un processo lungo e non del tutto giunto a compimento ma che, anche in seguito alla legge di riforma della filiazione del 2012, conferma come ormai sia anche il rapporto genitore- figlio, e non più solo il matrimonio, l’elemento su cui la famiglia ha fondamento.

Ancora oggi la legge, cristallizzata in un immobilismo che non riesce a stare al passo del costante mutare del contesto familiare, stenta nel dare voce agli interessi emergenti nel tessuto sociale.

Un esempio di questo claudicare del legislatore nostrano è fornito dal lento cammino verso il definitivo riconoscimento del diritto al risarcimento a favore del partner, seppur a fronte di danni gravi e che incidono in modo rilevante sulla integrità psico-fisica e sul suo mondo relazionale.

Vari erano gli ostacoli sul cammino degli interpreti: il primo era dato dal rischio di ampliare eccessivamente l’area del danno risarcibile (floodgate argument), in secondo luogo vi era il problema della risarcibilità del danno cosiddetto riflesso, in ultimo, ma non meno importante, vi erano delle difficoltà nel comprendere quali caratteri dovesse presentare la convivenza more uxorio per essere meritevole di tutela, in assenza di parametri legislativi espressi.

In primo luogo, andava infatti dimostrata l’esistenza e la portata del rapporto, che deve consistere in una comunanza di vita e di affetti.

A tal fine non è sufficiente la prova di una relazione amorosa, per quanto seria, ma è necessaria l’esistenza di una comunanza di vita ed affetti caratterizzata da stabilità e da una mutua assistenza morale e materiale di tipo para coniugale.

La prova di tali elementi qualificativi può essere data con qualsiasi mezzo, anche presuntivo. Eventuali certificati anagrafici attestanti la coabitazione hanno una mera valenza indiziaria, non potendo essere questa la prova esclusiva di una condivisione di pesi ed oneri loco matrimonii.

Alcune Corti hanno poi richiesto la sussistenza di una durata minima del rapporto di convivenza, requisito contestato da parte della dottrina che ne ha invece sottolineato la valenza meramente indiziaria, di certo non determinante ai fini dell’insorgenza del diritto al risarcimento.

La legge del 20 maggio 2016 n. 76, portatrice della tanto attesa “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” ha sul punto adottato un silenzio enigmatico.

La promulgazione della summenzionata normativa è praticamente stata un atto dovuto per il nostro ordinamento giuridico, ormai da tempo vessato sia dalla Corte Costituzionale che dalla Corte EDU al fine di consentire alle coppie dello stesso sesso l’accesso ad un istituto quantomeno equivalente al matrimonio, in modo da dare vita ad un impianto di diritti e doveri che troppo a lungo era stato loro negletto.

Una legge da molti definita epocale, una vera e propria rivoluzione del sistema ma che, tuttavia, si presta ad essere letta anche in modo critico, risultando, dopo un’attenta analisi, solo un passo, seppur importante, nella giusta direzione.

A tal proposito, il comma 49 della legge 76/2016, riconosce al convivente, in caso di decesso del partner, il diritto al risarcimento del danno sulla base dei medesimi criteri individuati in costanza di matrimonio, quid iuris in caso di lesioni?

Il silenzio del legislatore sul punto può realmente essere interpretato, come suggerisce il brocardo latino “Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”, nel senso di non volere riconoscere alcunché ove l’evento del terzo determini conseguenze meno nefaste, ma di certo non indifferenti, rispetto alla morte del convivente?

Oppure trattasi di una semplice dimenticanza con la conseguente necessità di continuare a volgere lo sguardo verso i criteri elaborati dalla giurisprudenza in tema di danno esofamilare?

In via preliminare, è possibile affermare che la risposta al quesito non può che essere negativa.

Il comma 49 della Legge n. 76/2016

Con la legge Cirinnà, infatti, il legislatore non ha inteso disconoscere quanto la giurisprudenza aveva, con opera certosina sebbene non priva di contraddizioni, riconosciuto alle coppie di fatto.

Tuttavia, l’assenza di una presa di posizione espressa, oltre ad essere un’“occasione sprecata” per risolvere i contrasti che tutt’oggi serpeggiano in seno alla giurisprudenza, soprattutto in riferimento alla tematica della liquidazione del danno, pone ulteriori problematiche di coordinamento con altre disposizioni della legge n. 76/2016, in particolare con quanto disposto dal comma 37.

Rispetto alla legittimazione attiva al diritto al risarcimento del danno in caso di lesioni del convivente more uxorio, sulla base del tenore letterale del comma 36, sembra potersi escludere la riconoscibilità del risarcimento, in caso di macro invalidazione del partner, a favore di soggetti non aventi lo stato di libero (ad esempio separati legalmente) o in assenza di legami affettivi di coppia o reciproca assistenza morale e materiale aventi carattere non para-coniugale.

In realtà, su questo ultimo punto, non può sottacersi un recente orientamento della Giurisprudenza che tende ad allargare le maglie del diritto al risarcimento del danno, riconoscendolo anche a favore di relazioni che non presentano i caratteri di cui sopra come in caso di soggetti meramente fidanzati e non conviventi o, addirittura, di coppia incestuosa (cfr. Trib. Venezia 2006).

Apprezzabile, invece, appare la scelta del legislatore, rispetto alla versione iniziale del testo di legge, di non riferirsi unicamente alle parti del contratto di convivenza.

Ma quale è allora la portata innovativa del comma 49?

Il rilievo della disposizione potrebbe giocarsi sul terreno probatorio, sia riguardo all’onere sopportato dal convivente more uxorio nella richiesta di risarcimento, sia riguardo all’accertamento che il giudice deve compiere per ritenere meritevole di ristoro la lesione subita dalla vittima secondaria.

A tal riguardo, due appaiono le strade percorribili che prescindono dal riconoscimento o meno dal valore costitutivo del rapporto alla dichiarazione anagrafica.

Da una parte, il comma 49 imporrebbe di ritenere esistente, quasi fosse una presunzione assoluta, la stabilità e l’esistenza del rapporto; dall’altra si limiterebbe ad alleggerire il carico probatorio posto sulle spalle dell’attore, ritenendo presunti, ma solo sino a prova contraria, tali elementi, e lasciando quindi al danneggiante la necessità di dimostrare, nonostante la dichiarazione di cui sopra, che il legame di fatto non abbia queste caratteristiche.

La mera dichiarazione anagrafica, infatti, non può supplire per se l’assenza della stabilità dell’unione o della mutua assistenza morale e materiale, elementi rispetto ai quali, d’altra parte, si dubita che lo stesso ufficiale dell’anagrafe possa svolgere un accertamento vero e proprio.

È importante sottolineare, inoltre, come anche la giurisprudenza precedente alla legge in esame, sia di merito che di legittimità, si sia mostrata costante e ferma nel ritenere insufficienti le sole dichiarazioni rese alla pubblica amministrazione.

La Cassazione è infatti stata chiara nel ribadire come debba atteggiarsi l’uso delle presunzioni per dimostrare l’esistenza di un danno, in particolare rispetto alla sofferenza in cui si estrinseca quello non patrimoniale.

Chi, dunque, non rientra nell’ambito di applicazione della legge del 2016, non potrà giovarsi di questo regime probatorio agevolato, pur potendo usufruire della tutela risarcitoria ove dimostri il possesso dei tradizionali requisiti richiesti dalla giurisprudenza.

La lettera generica del comma 49, inoltre, non consente di risolvere gli annosi dubbi sul quantum del risarcimento in caso di macro-lesione del convivente.

Il risarcimento dei danni patrimoniali

La giurisprudenza, difatti, ha stentato a riconoscere il risarcimento dei danni patrimoniali, ancorandolo alla necessaria presenza di elementi di fatto ulteriori rispetto a quelli richiesti per il danno non patrimoniale.

Tra i casi più comuni vi sono quelli delle macro-lesioni riportate in seguito a sinistro stradale, infortunio sul lavoro, malpractice medica, violenza sessuale, lesioni o errori giudiziari.

Il risarcimento mirante alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato, si articola nelle classiche voci del danno emergente e del lucro cessante.

Per quanto riguarda la prima voce, il ristoro comprenderà le spese sostenute per curare o assistere il partner, tenendo conto anche della necessità del loro protrarsi, secondo un criterio ragionevole, nel futuro. La liquidazione di tali danni dovrebbe basarsi su una accurata documentazione, ma ove questa sia incompleta o non affidabile il giudice potrà dar luogo a una valutazione di tipo equitativo per quanto riguarda il quantum, ma solo se l’esistenza del danno sia stata debitamente provata nell’an.

Più complesso è l’accertamento del lucro cessante, la prova del c.d. “mancato guadagno”. In particolare, rispetto al lucro cessante, si richiede sovente la prova di uno stabile contributo economico apportato in vita dal defunto al danneggiato, a fronte della natura di mere obbligazioni naturali delle prestazioni effettuate reciprocamente tra i conviventi, il cui unico effetto legale è quello della soluti retentio

Questa voce di danno potrebbe sussistere in ipotesi di pensionamento anticipato, qualora il partner sia costretto, a causa della necessità di assistenza continua manifestata dal convivente, ad abbandonare la propria posizione lavorativa.

L’attore dovrà dimostrare che le lesioni siano così gravi da richiedere un impegno incompatibile con il lavoro.

Il lucro cessante, tuttavia, potrebbe concretarsi anche nella perdita di quelle sovvenzioni economiche non episodiche di cui il convivente avrebbe continuato a beneficiare se non fosse intervenuto l’evento lesivo a danno del partner. Anche in questo caso la prova è piuttosto complessa, sia dal punto di vista dell’aspettativa del convivente a ricevere, in assenza di convenzione scritta, il sostegno economico, che della quantificazione dello stesso.

A tal fine il giudice potrà utilizzare presunzioni semplici o fatti notori, basandosi su svariati elementi quali il tenore di vita della famiglia, l’età del leso, la posizione lavorativa ricoperta, lo svolgimento di attività domestica, le esigenze del partner e la di lui occupazione.

Nella determinazione del quantum risarcibile, verrà preso come parametro di riferimento il reddito percepito dal soggetto leso prima dell’illecito, da tale importo verrà sottratto quanto che il percipiente avrebbe destinato ad uso personale al fine di ottenere il c.d. reddito utile che, una somma che andrà poi capitalizzata in riferimento alle tariffe della Cassa nazionale delle assicurazioni sociali. Il calcolo dovrà tenere conto di svariate variabili come: eventuali avanzamenti di carriera, il raggiungimento dell’età pensionabile o il numero dei membri della famiglia.

Tali operazioni saranno di certo più semplici nel caso di lavoro dipendente, ove, al contrario, il macroleso fosse un lavoratore autonomo, la formazione del reddito netto dovrà contemplare anche la differenza tra i corrispettivi percepiti e la somma dei costi relativi all’espletamento dell’attività lavorativa.

Alcune Corti hanno negato il risarcimento del danno patrimoniale a favore della vittima secondaria, al fine di evitare duplicazioni, ove poi sia stato riconosciuto un ingente risarcimento al congiunto leso, non essendo configurabile, in questo caso, una perdita economica nonostante il mancato percepimento della retribuzione.

Il risarcimento del danno patrimoniale futuro è stato ricondotto da alcuni autori nella macro-categoria del danno da perdita di chance, riferito a quelle erogazioni effettuate per il mantenimento del nucleo familiare durante la convivenza (celebre in tal senso, il riconoscimento del pregiudizio in questione nel c.d. caso “Gucci”) e svanite in seguito all’illecito del terzo.

Secondo tale orientamento interpretativo, in cui emerge la delicatezza del ruolo attribuito al giudice, si travalicano i confini del danno esistenziale, approdando invece nel terreno del danno da perdita di chance, un ambito proprio del diritto dei contratti ma, solitamente, non di quello familiare.

La risarcibilità della perdita di una chance, da una parte, rinverdisce i timori dell’“effetto cascata”, a cui più volte si è fatto cenno nel presente elaborato, a conferma di quanto la famiglia sia ormai entrata nell’area diritto privato, toccando anche il terreno del diritto dei contratti.

Gli istituti della successione e della pensione di reversibilità sembrano essere rimasti tra i pochi baluardi a giustificazione della storica autonomia, dal sapore pubblicistico, del diritto familiare.

Tornando a volgere lo sguardo alla legge Cirinnà, il comma 49 non fa riferimento a nessuna delle voci in cui è tradizionalmente diviso il risarcimento del danno.

Ancora una volta il silenzio del legislatore può essere interpretato in due modi radicalmente opposti: da una parte esso può sottintendere la volontà di escludere tout court il risarcimento del danno patrimoniale poiché, rimandando al trattamento del rapporto di coniugio, nelle convivenze di fatto non sarebbero mai ravvisabili obblighi a carattere patrimoniale (assistenza materiale, collaborazione, contribuzione). Dall’altra, il legislatore del 2016 avrebbe, tramite il rimando del comma 49, implicitamente affermato che, anche in caso di convivenza, vi sarebbero degli obblighi morali e materiali non dissimili da quelli che discendono dal matrimonio.

A favore di questa tesi depongono sia il tenore del comma 36, sia il comma 50, che consente di stipulare contratti di convivenza volti a disciplinare i “rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune”.

Nuovamente, dunque, il valore del comma 49 potrebbe essere apprezzato unicamente sotto il profilo probatorio e, in particolare, in merito all’ apprezzamento demandato all’organo giudiziario.

In caso di stipulazione di un patto di convivenza, infatti, sarà semplificata la dimostrazione dell’apporto a cui era tenuto il convivente leso e di come questo sia stato inficiato in conseguenza dell’illecito, anche in caso di non estinzione completa del rapporto obbligatorio come avviene in caso di lesioni.

In questa ipotesi, l’esistenza e l’efficacia del contratto sosterrebbero per se il risarcimento del danno patrimoniale, fermo restando che questo non esaurisce la possibilità di ulteriori contributi patrimoniali all’interno della coppia.

Alcuni interpreti hanno infatti sottolineato come sia ben possibile, aldilà degli accordi formalizzati tra i partner, che un convivente contribuisca al mantenimento economico dell’altro: sarà un’indagine complessiva sui rapporti in essere, al di là del contratto concluso, a chiarire se in capo al superstite possa riconoscersi un diritto al risarcimento del danno patrimoniale.

Che si debbano travalicare i confini del contratto di convivenza, rinvenendo ulteriori voci di danno patrimoniale, è confermato nell’ipotesi in cui uno dei due conviventi svolga lavoro domestico. In questo caso, infatti, il risarcimento dovrà tenere in conto anche la perdita delle prestazioni relative alla cura della casa e dell’assistenza fornite dal/la casalingo/a.

Il risarcimento del danno non patrimoniale

Il danno non patrimoniale si articola nelle voci del danno, morale, esistenziale e biologico, a cui oggi si tende ad accostare la controversa figura del danno di matrice psichica.

Tale figura di danno, principalmente a causa del tenore letterale dell’art. 2059 c.c., ha creato non pochi problemi agli interpreti e generato un forte dibattito in merito alle figure dei c.d. danni riflessi o da rimbalzo.

In seguito all’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione summenzionata, si è riconosciuta l’ammissibilità del ristoro di questo pregiudizio anche nell’ipotesi di lesione del convivente more uxorio.

La liquidazione che, sulla base delle sentenze di S. Martino deve avere carattere unitario, si basa tendenzialmente sui parametri previsti dalle tabelle milanesi, il giudice tuttavia, perseguendo l’obiettivo di personalizzazione del risarcimento, dovrà comunque adattare tali criteri alle peculiari caratteristiche caso concreto, correggendoli tramite l’applicazione di un criterio equitativo.

La prova del danno non patrimoniale, sebbene agevolata dal ricorso alle presunzioni, non è mai in re ipsa, ma al contrario richiede un penetrante supporto probatorio ai fini del suo riconoscimento.

Perché sia ammissibile, la domanda risarcitoria deve essere dettagliata sulla base di tutti i pregiudizi subiti dalla vittima, includendo tutti gli elementi atti a dimostrare l’esistenza del rapporto affettivo stabile e la sussistenza dei presupposti richiesti ex art. 2043 c.c.

L’autorità giudiziaria potrà, infatti, porre alla base della sua decisione altri elementi come documenti, testimonianze, nozioni di esperienza comuni e presunzioni semplici. Il criterio equitativo impone che il giudice motivi con accuratezza i criteri seguiti nella quantificazione del risarcimento, egli, inoltre, non potrà non fare applicazione, ove dovuto, del principio della “compensatio lucri cum damno” qualora ad esempio, oltre al danno lamentato, dallo stesso fatto lesivo derivi un qualche beneficio.

In caso di danno biologico grande rilevanza assumerà poi la prova scientifica e quindi la c.t.u. Il perito potrà riscontrare la presenza di una patologia collegata eziologicamente al fatto illecito che ha colpito il congiunto, offrendo così un sicuro appiglio sia riguardo all’esistenza del pregiudizio che del nesso causale.

Difficilmente il giudice si discosterà dal risultato della consulenza, in caso contrario egli sarà tenuto a motivare il perché vuole discostarsi dalle risultanze del consulente o perché ritenga superfluo disporlo.

Più complessa è la prova del danno morale e di quello esistenziale, essendo il primo un moto interiore della vittima secondaria che non si presta ad essere oggetto di una dimostrazione scientifica o diretta.

In tal senso, sovente, le Corti ritengono meritevoli di risarcimento solo lesioni gravi a cui consegue un determinato tasso di invalidità (permanente o meno), poiché solo queste sarebbero idonee ad ingenerare un patema d’animo di una certa rilevanza.

Altri autori hanno diversamente interpretato il requisito della gravità delle conseguenze del fatto illecito sulla vittima primaria, rapportandolo a quanto queste abbiano inciso sulla sfera emotiva-esistenziale del congiunto più che sul fisico/psiche della vittima primaria.

Il risarcimento, infatti, sulla base del criterio della personalizzazione, dovrà anche tenere conto delle qualità personali del danneggiato, poiché da queste dipende una maggiore eco del fatto illecito. Il discorso relativo al danno esistenziale è complicato dalle sfumature che questa categoria può assumere, a metà tra il danno biologico e quello morale. A differenza del danno morale, che si proietta all’interno della vittima, il pregiudizio esistenziale è destinato a ripercuotersi nella sfera esterna e relazionale del soggetto leso, compromettendone la routine, i rapporti e, in generale, l’esistenza.

L’attore dovrà dimostrare quanto la sua vita di relazione è stata infatti stravolta dal fatto che ha colpito il congiunto, potendo ricorrere a tal fine anche a presunzioni semplici ex art. 2727 c.c.

La dottrina ha individuato due categorie in cui possono essere divise le conseguenze esistenziali dell’illecito: quelle “normali” rispondenti al criterio dell’id quod plerumque accidit e della regolarità causale, e quelle eccezionali.

Queste ultime, connesse alla c.d. fascia idiosincratica della vittima secondaria, non possono essere provate tramite il meccanismo presuntivo, ma necessitano che l’attore alleghi ogni elemento necessario ai fini della loro dimostrazione.

Il sistema tabellare

Rispetto al danno non patrimoniale, infine, occorre menzionare le critiche rivolte al sistema tabellare, recentemente oggetto di aggiornamento con la revisione, nel 2018, delle tabelle di Milano.

Il ripetersi di casi simili necessitava l’adozione di uno standard comune da parte delle Corti, al fine di non determinare l’emergere di disparità di trattamento. Ciò ha determinato la nascita di tabelle di valori medi di risarcimento a cui ancorare la liquidazione del danno subito dalla vittima primaria e da quelle secondarie.

Tali valori si prestano ad essere usati anche in caso di lesione del congiunto, modulando, sulla base delle caratteristiche del caso concreto, i valori previsti in caso di morte.

Una delle prime critiche che si possono muovere a questo sistema riguarda l’appiattimento delle parti e dello stesso organo giudicante sui valori medi di risarcimento. Una tendenza, spesso riscontrata nella pratica, che ha portato l’osservatorio del Tribunale di Milano – gruppo danno alla persona, a modificare la veste grafica della versione del 2014 delle Tabelle di Milano.

In questo quadro il ruolo del giudice appare sempre più determinante.

Se da una parte, infatti, il criterio tabellare ha disancorato il risarcimento del danno subito dalla vittima secondaria da quello biologico subito dalla primaria, il fatto che inizialmente le tabelle fossero state modellate sul solo danno morale da lutto si riverbera ancora oggi nell’impossibilità di contemplare in maniera esaustiva gli aspetti esistenziali del danno.

Il correttivo equitativo posto dal giudice dovrà comunque svolgersi nell’ambito della forbice indicata dalle tabelle, potendo derogare al tetto massimo solo in casi eccezionali, quale l’illecito doloso.

Che il giudice ormai sia obbligato a fare riferimento alle tabelle, sembra essere un dato acquisito anche dalla giurisprudenza di legittimità. La questione, oggi, è piuttosto se l’organo giudicante o la parte possano scegliere, in assenza di parametri di legge, quale tra le varie tabelle elaborate dai tribunali utilizzare.

La Cassazione, in passato, ha precisato che non “non è configurabile alcun diritto del danneggiato a vedere applicata l’una o l’altra tabella nella liquidazione del danno subito” e che il giudice potrebbe liberamente scegliere la tabella ritenuta più opportuna nel caso concreto, sebbene una scelta basata sul criterio territoriale, onde evitare discriminazioni all’interno di uno stesso foro, potrebbe essere auspicabile.

In realtà il giudice di legittimità si è recentemente espresso sul valore para-normativo delle tabelle milanesi, prefigurandone una applicabilità automatica.

Nella ordinanza del 30 agosto 2018, infatti, la terza sezione della Corte di Cassazione ha precisato che se da un parte non è censurabile in sede di legittimità la scelta discrezionale del giudice di merito di collocare il risarcimento tra il minimo ed il massimo tabellare, dall’altra integra una ipotesi di violazione di legge “la ingiustificata e immotivata violazione delle tabelle, ed attraverso di esse dei parametri normativi di quantificazione del danno, qualora tale quantificazione, senza alcuna giustificazione motivazionale, si collochi al di sotto dei minimi delle tabelle del tribunale di Milano447 vigenti al momento della decisione”. Riconoscere un valore para-normativo alle tabelle milanesi non è privo di conseguenze.

Quid iuris in caso di danno biologico psichico riportato dalla vittima secondaria in caso di incidente stradale? Troveranno applicazione i parametri tabellari previsti dagli artt. 138 e 139 cod. ass. priv. o quelli individuati dalla giurisprudenza? Tali disposizioni sono infatti sorte riguardo le vittime primarie, ma trattandosi in ogni caso di danno biologico ad alcuni Autori pare irrazionale applicare due distinte discipline in punto di risarcimento della medesima tipologia di lesione.

Inoltre, la scelta delle tabelle Milanesi rischia di scontentare chi reputava più opportuno ripiegare su quelle Romane o Veneziane. In particolare, se le tabelle del tribunale di Venezia prevedono espressamente una loro utilizzabilità anche in caso di alterazione del rapporto parentale in seguito alla macro-invalidazione del congiunto, quelle romane mostrano di prendere in considerazione più parametri di riferimento quali l’età delle vittime, la presenza di altri parenti conviventi nonché la presenza di altri parenti entro il secondo grado.

Le tabelle milanesi, inoltre, secondo alcuni interpreti sono tacciate di non rispondere adeguatamente al requisito della prevedibilità della decisione e di uguale trattamento di situazioni identiche richiesti dalle sentenze di S. Martino. Si tratta di elementi di non secondaria importanza soprattutto qualora, prima o dopo l’accertamento giudiziale dell’an debeatur, si decida di concludere un accordo stragiudiziale.

Come testimoniato da quanto espresso nel presente elaborato, il tema del risarcimento del danno esofamiliare occupa ancora i dibattiti giuridici sia dal punto di vista dell’an che del quantum.

L’emergere di relazioni affettive di stampo non classico ma che al contempo reclamano a gran voce tutela, pone sfide sempre nuove all’interprete del diritto che si trova a plasmare l’impalcatura dei conosciuti istituti giuridici su fattispecie emergenti da poco tempo nel tessuto sociale.

Non è una novità che la società corra ad una velocità diversa rispetto al diritto, né che il legislatore spesso si trovi impreparato a dare un’appropriata veste giuridica a situazioni innominate, simili ma non uguali a quelle tradizionali.

In questo quadro, a volte sconfortante, emerge il fondamentale ruolo del giurista che sempre più spesso è costretto a farsi primo portatore della tutela di quelli che da molti vengono chiamati nuovi diritti ma che, in realtà, sovente celano dietro una veste non familiare fenomeni per nulla diversi nella sostanza.

È sempre la persona, con i suoi diritti ed i suoi affetti, nelle loro diverse manifestazioni, a richiedere tutela ed a porsi al centro della scena giuridica, porti o meno la fede al dito.

Dott.ssa Caterina Marino