Detenuto chiede permesso per consumare nozze: la sentenza della Cassazione

Con sentenza n. 882/2016 la Prima sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sulla possibilità di concedere ad un detenuto sottoposto a condanna per gravi reati (associazione di stampo mafioso ed estorsione) un permesso premio che gli consentisse di poter consumare l’unione coniugale contratta con la compagna dalla quale, peraltro, ha avuto due figli non in costanza di matrimonio.

Il detenuto in questione aveva avanzato al Tribunale di Sorveglianza di Venezia la richiesta di ottenimento di un permesso per potersi recare insieme alla moglie presso un centro di accoglienza di Padova esercitando, di tal fatta, il diritto di consumare le nozze avvenute precedentemente in corso di detenzione.

Il Tribunale di Sorveglianza adito denegava la concessione di un siffatto permesso, richiamando, all’uopo, giurisprudenza conforme dei Giudici di Piazza Cavour (Cass. pen. N. 48165/2008) e sulla scorta del principio sancito dall’art. 30 del Codice Penitenziario, in base al quale l’espletamento della sessualità non rientra nella previsione del terzo comma del presente articolo poiché non caratterizzante evento familiare dotato di particolare gravità.

Il detenuto decideva, quindi, di rivolgersi alla Corte di Cassazione la quale, dando ragione all’orientamento espresso dal Giudice di Sorveglianza, ed in ciò non discostandosi dal prevalente indirizzo espresso da precedente autorevole giurisprudenza di legittimità, rigettava il ricorso del soggetto di cui trattasi statuendo, innanzi tutto, che il permesso premio presume, quale precipuo requisito, una soglia minima di pena già espiata,   una valutazione positiva della condotta tenuta dal recluso, nonché una valutazione circa la “pericolosità sociale” del soggetto, così come stabilito dal comma 1, dell’art. 30-ter della Legge 26/07/1975, n. 354.

Nel caso che ci occupa la Corte ha ritenuto che “considerata la gravità dei reati per cui la condanna è in espiazione, il lontano fine pena (anno 2024) e la non remota decorrenza di essa (18 settembre 2010), le limitazioni alla libertà personale e familiare lamentate dal ricorrente risultano del tutto proporzionate agli scopi legittimamente perseguiti attraverso l’esecuzione della pena senza che lo Stato abbia oltrepassato il margine di apprezzamento di cui gode la materia.

Tale orientamento giurisprudenziale risulta, peraltro, confortato dall’indirizzo interpretativo seguito dalla Corte Europa dei diritti dell’uomo, ritenuto in particolare che “qualsiasi detenzione regolare per sua stessa natura comporta una restrizione della vita privata e familiare dell’interessato e che tali restrizioni sono legittimate se non abbiano ecceduto quanto è necessario alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine ed alla prevenzione dei reati, in una società democratica”.