Contratto di lavoro a termine. Impugnazione della clausola appositiva del termine e scioglimento per mutuo consenso del rapporto di lavoro antecedentemente alla legge 183/2010

settembre 4th, 2012|Articoli, Diritto del Lavoro|

La lavoratrice promuoveva ricorso ex art. 414 c.p.c., chiedendo al tribunale adito di accertare e dichiarare la nullità e/o l’illegittimità del termine apposto al contratto d’assunzione intercorso.  Nei fatti la lavoratrice specificava e ribadiva di aver tempestivamente offerto la propria prestazione lavorativa, con lettera raccomandata (quindi neppure 4 mesi dopo la cessazione definitiva dell’attività lavorativa) nell’ambito della quale aveva formalmente chiesto di essere reintegrata e/o riammessa in servizio, ovvero di ripristinare il rapporto di lavoro in considerazione della nullità e/o illegittimità e/o inefficacia delle clausole del termine.

All’esito il Tribunale di Roma pubblicava la sentenza con la quale dichiarava la domanda infondata ritenendo che si fosse verificata un’ipotesi di scioglimento per mutuo consenso del rapporto di lavoro, poiché il ricorso sarebbe stato proposto quando era trascorso un considerevole lasso temporale dalla data di scadenza del contratto impugnato.

Secondo il tribunale il mutuo consenso avrebbe trovato fondamento nel fatto che, considerata la giovane età della lavoratrice (nata nel 1975) e la sua presumibile aspirazione ad un’occupazione lavorativa, il lungo lasso temporale (oltre 6 anni) intercorso tra la scadenza del contratto impugnato e la proposizione del ricorso avrebbe assunto la valenza di accettazione della risoluzione definitiva del rapporto.

È noto che la concezione dello “scioglimento per mutuo consenso del contratto a termine a fronte del decorso di un ragionevole lasso di tempo” è una pura creazione giurisprudenziale accolta, peraltro, soltanto in via minoritaria e priva di effettivo fondamento normativo.

Si deve respingere, peraltro, l’eccezione relativa all’inerzia pluriennale ed alla presunta acquiescenza contestata in quanto, come si è esposto, solo dopo pochi mesi dalla cessazione definitiva dell’attività lavorativa in virtù dell’ultimo contratto a termine, la lavoratrice offriva la propria attività lavorativa alla resistente tramite l’invio di lettera raccomandata.

A confutazione integrale della tesi della risoluzione per mutuo consenso, occorre rilevare che, secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, la scadenza del termine costituisce di per sé circostanza ininfluente, atteso che sul lavoratore non grava alcun onere di manifestare la volontà di proseguire il rapporto, nonostante la scadenza.

Infatti, a seguito di due diversi interventi della Cassazione a Sezioni Unite oggi può dirsi pacificamente acquisito il dato secondo cui in caso di “scadenza” di contratto a termine illegittimamente stipulato, e di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono applicabili né la norma di cui all’art. 6 della L. 15 luglio 1966, n.604, né quella di cui all’art.18 della L. 20 maggio 1970, n.300, ancorché la conversione del rapporto a termine dia ugualmente al dipendente il diritto di riprendere il suo posto di lavoro e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò gli venga negato.

Peraltro, l’azione diretta a far valere la nullità parziale del contratto a tempo determinato per contrasto con norme imperative di legge ex artt.1418 e 1419, comma 2, c.c. è imprescrittibile ai sensi dell’art.1422 c.c. e quindi può essere fatta valere in ogni tempo (v. Cass. S.U., 6 luglio 1991, n.7471 e Cass. S.U. 8 ottobre 2002, n.14381).

Non è quindi possibile parlare di tardività nella proposizione del ricorso in primo grado.

Sotto il profilo sostanziale, invece, occorre rilevare che l’atto con il quale dovrebbe essere “interrotto” il rapporto derivante dal contratto di lavoro richiederebbe per il suo perfezionamento l’incontro di due volontà simmetriche, espresse dal datore di lavoro e dal lavoratore.

Nondimeno, appare evidentemente impossibile qualificare la mancata presentazione al lavoro da parte della lavoratrice dopo la scadenza del termine nullo, ovvero il presunto ritardo nell’intraprendere il giudizio per far valere l’illegittimità dello stesso, come proposta di modificare o integrare l’originario regolamento di interessi.

È, peraltro, comunemente condiviso l’assunto in virtù del quale l’inerzia del titolare di un diritto non determina automaticamente la perdita del diritto stesso.

Per configurarsi una fattispecie di rinuncia tacita non è sufficiente la mancata reazione ad un comportamento datoriale, ma presuppone sempre un’inequivocabile, sia pure tacita, manifestazione di volontà di dismettere un proprio diritto.

Solo allora il rapporto potrà considerarsi estinto: non però a causa della risoluzione consensuale (come erroneamente sostenuto dal Tribunale), ma per rinunzia del lavoratore ad impugnare il termine nullo, la cui scadenza costituisce, in presenza della rinuncia, la vera causa di estinzione del rapporto.

Inoltre occorre rilevare che, in base all’orientamento giurisprudenziale più corretto, la risoluzione tacita del rapporto caratterizzato da illecita apposizione del termine si verificherebbe solo allorquando, oltre all’inerzia del dipendente e ad altri sintomi e comportamenti incompatibili con la volontà di proseguire il rapporto, sia possibile dimostrare anche la conoscenza effettiva della illegittimità del termine da parte del lavoratore.

Ne consegue che il mero passaggio del tempo tra la scadenza del contratto e l’azione giudiziale non può, da solo, costituire sicuro elemento da cui far discendere la convinzione dell’intervenuta manifestazione bilaterale di volontà risolutoria del rapporto.

Né esso può rappresentare tacita espressione di unilaterale volontà diretta a manifestare rinuncia al diritto di far valere tale nullità, come invece pretende di sostenere il Tribunale.

Invero, conformemente all’orientamento dottrinale assolutamente prevalente, “la semplice inerzia non ha alcun valore sintomatico, mentre la risoluzione postula una chiara volontà del lavoratore che non esperisca l’azione nella consapevolezza (…) della posizione soggettiva rinunciata” (v. Corte di Appello di Catania, 6 marzo 2007).

Il silenzio non esprime in sé alcuna volontà né positiva né negativa e “il lungo intervallo di tempo non esprime che l’inerzia”.

Sono, invero, le concrete circostanze in cui l’inerzia si colloca che possono giustificare l’illazione, se del tutto univoche, dell’esteriorizzazione di un fatto psichico.

 

Sergio Scicchitano